LIBRI CHE RIMARRANNO/81: l'ultimo Saviano ''Cuore puro'' qui non scrive affatto bene

Ho una avversione personale e motivata per i libri con alcune caratteristiche: la prima e più importante di queste sono i romanzi che invece che calarti subito in medias res si aprono con una premessa dell'autore che spiega il perché e il percome ha scritto quella tal storia, e cosa ha voluto dire, casomai il lettore fosse fuorviato nella sua ermeneutica.
Lo so che il primo e il maestro di tutti costoro è stato Manzoni, lo so, ma là c'era l'artificio del manoscritto ritrovato, non l'esibizione del proprio ego e una excusatio non petita.
Prendo in mano l'ultimo libro di Roberto Saviano e ritrovo esattamente questo.
L'autore ci spiega che questo romanzo ("Cuore puro", Giunti 2022, pagg, 168, Euro 16,00) in realtà è la riscrittura amplificata di un suo racconto, "Super Santos", pubblicato addirittura nel 2005, prima di "Gomorra", in una raccolta antologica minore, e poi apparso a più riprese in questi anni, per le edizioni del "Corriere della Sera" e con Feltrinelli.
Lo so, lo so: anche Manzoni ha rimaneggiato e riscritto il suo capolavoro, pubblicandolo in seconda edizione a distanza di 19 anni (quasi come Saviano!) dalla sua prima stesura.
Ma quando l'ha fatto ha operato tagli più che aggiunte, perché ogni scrittore vero sa che è più difficile essere brevi piuttosto che prolissi. E ha operato di cesello sulla lingua, per renderla più pura, precisa, universale.
Saviano dichiara invece di averlo voluto riscrivere, ampliandolo, mirando a "un'escursione più ampia, nuotando sulla superficie della spensieratezza che quel pallone di gomma arancio fuoco trasmette e calandomi in profondità, nei fondali di certi luoghi partenopei dove troppo spesso la vita rimane incagliata".
Mi sarei anche fermato qui nella lettura. Similitudine natatorio-subacquea intrisa da pessimismo di maniera per introdurre un romanzo in cui il gioco del calcio è - ovviamente - metafora dell'esistenza: non serve la caricatura che ne fa Maurizio Crozza, la prosa di Saviano è una caricatura già da sola, didascalica dove non serve, ideologica per partito preso.
Dario, Giovanni, Giuseppe e Rino sono i giovanissimi protagonisti del romanzo. Ma naturalmente prima di incontrarli in azione ci sono altre pagine in cui il narratore in prima persona fa una lunga disamina sul fascino di questo pallone, il "Super Santos", sulle dinamiche del gioco nelle strade di Napoli, sui vicini di cortile che inevitabilmente te lo tagliano il pallone, sul Super Tele che è da ricchioni e sui ciccioni che venivano messi puntualmente in porta.

"I ragazzini dicevano che il Super Tele era il "pallone delle femmine". Un pallone da "sette si schiaccia", il gioco simile alla pallavolo in cui giunti al settimo palleggio si cerca di schiacciare la palla contro una persona, tentando di colpirla e farle male il più possibile, così da eliminarla. Nel mio paese, che faticava a liberarsi di una radicata omofobia, qualsiasi gioco vedesse toccare la palla con le mani era considerato "da ricchione".

"Finivano ovunque, i Super Santos. Sui tetti, sui balconi, nelle scarpate, sugli alberi, dietro le cancellate, infilzati sulle ringhiere, in mezzo agli scogli, fusi e incollati ai tubi di scappamento delle auto. La regola anche lì era inflessibile, ossia: chi lancia il pallone fuori, lo recupera. E per recuperarlo, a volte ci volevano ore. Citofonare, farsi aprire il cancello - che non ti aprivano mai perché non ne potevano più delle pallonate - o arrampicarsi, scavalcare, avventurarsi a cercarlo in mezzo alla campagna. Se finiva in un giardino con delle rose o in una terra coltivata a carciofi, le spine lo graffiavano e si sgonfiava lentamente mentre ci giocavi. La parte maggiore dei Super Santos di città moriva perché qualche signora, quando il pallone finiva nel suo balcone o le sfondava la finestra di casa, lo afferrava e - spesso davanti ai ragazzini impietriti - compiva l'esecuzione squartandolo con un coltello da cucina."

Davvero io devo spendere 16 euro per leggere queste cose qui?
Comunque, per i quattro ragazzini di dieci anni il calcio è una boccata d'aria pura tra pusher e caporioni, che ben presto intravedono in loro i "pali" perfetti: dotazione illimitata di palloni nuovi a patto che giochino nella piazza dello spaccio e urlino forte ogni volta che dovesse avvicinarsi una volante della polizia.
Il loro destino è già scritto in questa infantile complicità? C'è un varco oltre il quale è possibile fuggire dall'essere figli di chi sono figli?
Si ritroveranno dieci anni dopo, quando il pallone avrà smesso in modo brusco e doloroso di rotolare, quando la vita non sarà più solo un gioco, e le decisioni da prendere più serie del pur serissimo gioco del calcio.
Avrebbe potuto esserci Molnár dietro la storia di questi ragazzi, o forse, dopo "Io non ho paura" di Ammaniti è impossibile scrivere un romanzo altrettanto forte su quanto sia difficile varcare quella soglia tra infanzia ed età adulta in una realtà contagiata dal male.
Leggo già in questi giorni agenzie di stampa e recensioni prone al fenomeno Saviano, che citano addirittura Zola o Conrad: io non ne ho visto tracce nella prosa di Saviano, ma credo ai colleghi che dicono di averle còlte.
Trovo invece fastidiosa in narrativa (non nella prosa giornalistica, ma allora non si scriva un romanzo) la standardizzazione nera di Napoli, ambientazione ormai privilegiata delle giovani voci narrative meridionali, e la conseguente abdicazione all'immaginario, a favore d' una volontà di denuncia che tante volte traduce la
narrazione in cronaca (e non, semmai, viceversa).
"E buona sorte quando tutto questo - mafia e camorra che «tirano» - resta affidato a sguardi interni, più che a esterne prospettive sociologicamente guardone". Lo scriveva Ermanno Paccagnini, che di noi critici letterari è stato ed è il maestro, sul "Corriere", quasi vent'anni fa.
E dopo vent'anni siamo ancora qui, a riscrivere un racconto di quell'epoca.
Spiace, ma un libro, qualsiasi libro, si giudica per come è scritto, non per la storia personale o per la statura intellettuale e politica di chi l'ha scritto.
E Saviano - che pure nella sua carriera ha documentato storie interessanti - (qui) non scrive affatto bene.


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Rubrica a cura di Stefano Motta
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