LIBRI CHE RIMARRANNO/80: ''Le notti della peste'' romanzo storico di Orhan Pamuk

Nell'aprile del 1901 un piroscafo si avvicina silenzioso all'isola di Mingher, «perla del Mediterraneo orientale». Dall'imbarcazione scendono due persone: il dottor Bonkowski - il maggior specialista di malattie infettive dell'Impero ottomano - e il suo assistente. Bonkowski è lì per conto del sultano: deve indagare su un nemico invisibile ma mortale, che rischia di mettere in ginocchio un Impero già da molti definito il «grande malato d'Europa» e innescare così una reazione a catena nei delicatissimi equilibri continentali. Sull'isola di Mingher - si dice - c'è la peste.
Quando nelle trame della letteratura si infila questa parola i ricordi vanno più o meno consciamente a Tucidide, a Lucrezio, a Boccaccio, e poi al romanzo omonimo di Camus e, più di tutti, a Manzoni.
Che questo avvenga per noi lettori italiani appare persino ovvio. Che sia uno scrittore turco, Premio Nobel per la Letteratura nel 2006, a dichiarare con aperta fermezza il suo debito imprescindibile nei confronti dei "Promessi sposi" è qualcosa che emoziona.
Ne parlava lo scorso mese, domenica 2 ottobre, in una chiesa S. Filippo Neri a Torino strapiena, presentando il suo ultimo romanzo appena tradotto e pubblicato anche in Italia, "Le notti della peste" (Einaudi 2022, pagg. 720, Euro 25,00), confidando che il romanzo avrebbe dovuto inizialmente essere solo una metafora, che l'isola di Mingher avrebbe dovuto rappresentare una sorta di microcosmo verosimile (non di certo ideale) del nostro mondo. Poi è arrivato il Covid, e tutto è diventato una potente allegoria.
"Nella prima versione mancava la mia paura" ha spiegato: "i personaggi non avevano il terrore che provavo io nei confronti del coronavirus".
Perché nell'isola di Mingher il morbo viene rapidamente confermato (più rapidamente che nella Milano manzoniana dove le autorità spagnole si avvitano in equilibrismi lessicali, e per certi versi più rapidamente che nel nostro mondo moderno a proposito del Covid-19), ma la vera sfida è riuscire a imporre le corrette misure sanitarie, soprattutto quando le esigenze della scienza e della medicina più nuova si scontrano con le credenze religiose. In quest'isola multiculturale dove musulmani e cristiani ortodossi cercano di convivere pacificamente, la malattia funge da acceleratore delle tensioni sociali e non solo: poco dopo aver parlato con il governatore e chiesto che venga imposta la quarantena, il corpo del dottor Bonkowski viene trovato senza vita in un vicolo.
L'uomo, l'unico, in grado di arginare il contagio, viene ucciso.
In un drammatico crescendo la peste dilaga, spingendo le autorità a rafforzare le misure di contenimento: queste però aumentano le frizioni tra le varie identità dell'isola (e dell'Impero), tra chi le asseconda e chi nega l'esistenza stessa della malattia, o l'efficacia della quarantena, gettando la comunità nelle tenebre di una notte non soltanto sanitaria.
Potentissimo romanzo storico uscito dalla penna di uno scrittore che la visibilità del Nobel ha protetto dalle purghe erdoganiane, si trova ad essere forse il più fedele ritratto artistico degli anni che abbiamo appena attraversato.
Solo che non è ambientato nel 2019. O forse proprio grazie al fatto che è ambientato centoventi anni fa, e per questo può dire quel che nessuno scrittore oggi è finora riuscito a dire sulla nostra peste del 2020.

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Rubrica a cura di Stefano Motta
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