Immigrazione e disuguaglianze
Si fa un gran parlare - e sparlare - di immigrazione. E non solo da oggi.
Non che certi fenomeni migratori non abbiano caratterizzato anche in passato grandi movimenti di popoli, basti pensare ai molti Italiani espatriati a cavallo degli ultimi secoli nelle Americhe, ma mai come oggi sembrano costringere a porci interrogativi strutturali.
Sarà perché nella società attuale troppi sono gli interessi speculativi che strumentalizzano variamente una questione da sempre delicatissima ma ormai non si può più negare che tale fenomeno sia sempre più connaturato, nelle forme odierne, al nostro "modello di sviluppo".
Da sempre infatti le grandi masse di variamente poveri hanno inseguito il "pane", carente in patria, presso altri Paesi con il miraggio di migliorare la propria condizione economica e sociale.
E non sempre abbiano poi trovato società di approdo accoglienti se non addirittura ostili, non poche volte.
Ma oggi, all'alba del terzo millennio, una società che si dice moderna e intessuta di grande civiltà, può ancora permettersi di non mettere mano alla cause più profonde di tali spostamenti di massa indubitabilmente derivanti da sempre più crescenti disuguaglianze?
Oltre che giustamente preoccuparsi di soccorsi più o meno emergenziali, ripartizioni, rimpatri, diritti umani ed egoismi nazionali, accoglienza e integrazione ecc. ecc. che riempiono i dibattiti spesso salottieri dei grandi media, non occorrerebbe guardare in faccia la realtà di un mondo che gira al contrario?
Fin quando i Paesi eufemisticamente definiti " in via di sviluppo", a partire da quelli africani, saranno depredati in varie forme delle loro ricchezze, come si potrà sostenere che la soluzione giusta sia di "aiutarli a casa loro"?
E fin quando i modelli di riferimento trasmessi mediaticamente a tutte le latitudini saranno quelli di inseguire l'accumulo di beni anche non strettamente necessari, come si potrà pretendere che i più non ne siano abbagliati?
E fin quando si continuerà a guardare il dito (ovviamente pur da gestire al meglio) e non la luna?
Non che certi fenomeni migratori non abbiano caratterizzato anche in passato grandi movimenti di popoli, basti pensare ai molti Italiani espatriati a cavallo degli ultimi secoli nelle Americhe, ma mai come oggi sembrano costringere a porci interrogativi strutturali.
Sarà perché nella società attuale troppi sono gli interessi speculativi che strumentalizzano variamente una questione da sempre delicatissima ma ormai non si può più negare che tale fenomeno sia sempre più connaturato, nelle forme odierne, al nostro "modello di sviluppo".
Da sempre infatti le grandi masse di variamente poveri hanno inseguito il "pane", carente in patria, presso altri Paesi con il miraggio di migliorare la propria condizione economica e sociale.
E non sempre abbiano poi trovato società di approdo accoglienti se non addirittura ostili, non poche volte.
Ma oggi, all'alba del terzo millennio, una società che si dice moderna e intessuta di grande civiltà, può ancora permettersi di non mettere mano alla cause più profonde di tali spostamenti di massa indubitabilmente derivanti da sempre più crescenti disuguaglianze?
Oltre che giustamente preoccuparsi di soccorsi più o meno emergenziali, ripartizioni, rimpatri, diritti umani ed egoismi nazionali, accoglienza e integrazione ecc. ecc. che riempiono i dibattiti spesso salottieri dei grandi media, non occorrerebbe guardare in faccia la realtà di un mondo che gira al contrario?
Fin quando i Paesi eufemisticamente definiti " in via di sviluppo", a partire da quelli africani, saranno depredati in varie forme delle loro ricchezze, come si potrà sostenere che la soluzione giusta sia di "aiutarli a casa loro"?
E fin quando i modelli di riferimento trasmessi mediaticamente a tutte le latitudini saranno quelli di inseguire l'accumulo di beni anche non strettamente necessari, come si potrà pretendere che i più non ne siano abbagliati?
E fin quando si continuerà a guardare il dito (ovviamente pur da gestire al meglio) e non la luna?
Germano Bosisio