LIBRI CHE RIMARRANNO/78: ''Il moro della cima'' di Malaguti, tra monti e guerra


Paolo Malaguti è uno scrittore che azzecca un libro sì e uno no. Quando ci riesce ci consegna dei capolavori. Quando no, di solito il mercato lo premia.
Lo seguo dalla "Reliquia di Costantinopoli" del 2015, che Neri Pozza ci inviò per il Premio Manzoni, e ricordo di averlo molto sponsorizzato poi, per lo stesso Premio, nel 2017, con quel "Prima dell'alba" che continuo a ritenere finora la sua prova migliore, e un romanzo bellissimo. Non entrò nella terna dei finalisti per poco, ma da allora io non ho mai smesso di consigliarne la lettura e di regalarne copie agli amici.
Venne poi il trascurabile "L'ultimo carnevale" nella parentesi milanese di Solferino e, col passaggio a Einaudi, "Se l'acqua ride" che fu finalista al Campiello nel 2021.
E poi arriva questo "Il moro della cima" (Einaudi 2022, pagg. 280, euro 19,50), sul quale avevo molte aspettative e che invece ha obbedito all'alternanza di cui sopra.
Siamo sul monte Grappa a cavallo della Grande Guerra e seguiamo le vicende di Agostino Faccin detto "il Moro", prima malgaro e poi primo gestore del rifugio Bassano, sorto sulla cima "della Grapa", al femminile, poco prima che scoppiasse il conflitto mondiale e che i pendii di quel massiccio diventassero teatro di scontri epici e di propaganda monumentale dopo.
La sua montagna, violentata dalla strada che aveva fatto costruire Cadorna, il "Firmato" degli analfabeti, che ne ricavavano il nome proprio dai comunicati firmati Cadorna, smembrata dalla galleria che la taglia da parte a parte e che ancora oggi si può visitare, bombardata dall'artiglieria austroungarica e poi, alla fine, quando poteva finalmente riposare, piallata e riempita per costruire il sacrario fascista.
"I veci no i te conta mai el loro patir pì grando", dice il Moro ricordando la rassegnata silenziosità dei saggi: i vecchi non raccontano mai il loro dolore più grande. "Perché non esiste verbo che racchiuda in sé due vite trascorse insieme che vengono divise. E allora in mona. Meglio il silenzio", sentenzia, quando gli muore il fedele cane pastore Too, compagno di una vita.
Questo burbero distacco dal mondo del personaggio del Moro, solitario malgaro pur con la moglie appena sposata in paese, solitario custode del rifugio pur con moglie e figli in paese, solitaria guida per i turisti della cima, diventa una testarda corazza difensiva contro mali più grandi e un tentativo di protezione e custodia della montagna, sacra già prima di essere la custodia di un sacrario.
Certo, raccontare la vita di un uomo solo e toccare solo di sfioro il dramma della guerra non è facile: si tratta più di levare che di aggiungere. Malaguti percorre un terreno che ben conosce sin dal suo primissimo lavoro del 2009, "Sul Grappa dopo la vittoria" e dallo splendido "Prima dell'alba", ma qui lo fa senza alcun piglio distintivo.
Nella letteratura italiana contemporanea c'è la voce interessante di una generazione di scrittori veneti, figli e nipoti artistici di Mario Rigoni Stern e di Andrea Zanzotto: dico di Andrea Molesini, di Matteo Righetto, persino di Andrea Pennacchi o di Marco Paolini, più noti al pubblico televisivo che a quello libresco, forse.
Nel suo uso della lingua, cercando un impasto di italiano e veneto, Malaguti non riesce qui a trovare quell'amalgama distintivo e unico che potrebbe rendere questa storia che in fondo è un giallo, anzi un giallo "paglierino" come quello del vino bianco distribuito al rifugio, strumento di una beffa quasi boccacciana ai danni del Firmato, di d'Annunzio e persino di re Vittorio Emanuele III "in tutto il suo metro e cinquantatre di bellezza". Sentiamo ogni tanto l'inflessione dialettale della saggezza pastosa e della rabbia bestemmiante dei pastori dei Colli Alti, di Solagna, di Bassano, ma non basta.
Naturalmente "Il moro della cima" è un libro che vale la pena di leggere: il mercato l'ha premiato. Tutti gli appassionati della montagna, tutti gli appassionati della Prima Guerra Mondiale, tutti gli affezionati alle storie popolari, tutti i docenti di storia del quinto anno delle superiori (e i loro studenti, anche) lo leggano senz'altro, e non sarà tempo perso.
Io aspetto il prossimo romanzo.


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Rubrica a cura di Stefano Motta
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