LIBRI CHE RIMARRANNO/76: ''Brucia l'aria'' nell'inesistente terra di Torre Languorina

Devo la scoperta di questo scrittore al mio amico Emanuele "Lele", uno di quei librai indipendenti che conoscono i titoli che hanno in libreria e più ancora conoscono i loro lettori.
"Dammi qualcosa che mi sorprenda", gli ho detto. E mi ha parlato di Omar Di Monopoli, e di questo romanzo in particolare, "Brucia l'aria" (Feltrinelli, 2021, pagg. 201, Euro 17,00). L'ho raccolto dalle sue mani e aperto alla prima pagina. Ho letto: "Si levò nell'aria alla controra. Dapprima come un alito inatteso, un sussurro appena, poco meno di un murmure monodico proveniente dalle piane lastrate di calcare dell'entroterra più fondo. Poi, crepitando tra gli ori lussureggianti dell'estate, scanalando pianori soffocati dai carici e dai rovi, il fuoco capolinò."
E su questo verbo, così infantile, così pastoso, così geniale, ho detto: "dammelo".
Non è solo il "capolinare", così diverso dal "fare capolino". Credo che mi avesse convinto già alla "controra". Ma anche il "murmure monodico", che in mano a uno scrittore banale sarebbe stato "il mormorio monotono", e la costruzione del periodo così arcaicizzante, con soggetto e verbo in ultima sede: si leggono libri per appassionarsi alle storie che raccontano e se ne leggono altri per lasciarsi ipnotizzare dal modo in cui le raccontano.
Questo romanzo di Omar Di Monopoli appartiene più alla seconda categoria, che alla prima.
Una lingua saporita, che mescola idiotismi pugliesi e hapax coltissimi, viene da molti definita "barocca" facendo leva su quell'effetto di stupore che talora rimane nel lettore. Io non credo che l'autore ambisse a questo, né che volesse in qualche modo scimmiottare altri scrittori meridionali che di questo impasto di neologismi e dialettismi hanno fatto il loro marchio (macchiettistico) di fabbrica: una lingua che in Cammilleri non è il siciliano e in Di Monopoli non è il pugliese. È una cosa diversa.
Come Vigata di Montalbano, anche Languore, dove è ambientato "Brucia l'aria", è del resto inesistente: chi di noi ama il Salento e conosce Torre Lapillo, Punta Prosciutto, Isola dei Conigli, cercherà invano sulla cartina "Torre Languorina", distrutta nell'estate del 1990 da un incendio che ne devastò il litorale.
Tra i resti bruciati dell'immenso falò viene rinvenuto un cadavere, che le autorità registrano subito come il responsabile del disastro: si tratta di Livio Caraglia, pompiere locale dai trascorsi ambigui. Per alcuni un eroe, per altri un estortore locale in odore di mafia. Dopo vent'anni sono i suoi figli a fare i conti con la cenere di quel passato. Rocco Caraglia, il maggiore, si sforza di rigare dritto, dopo aver scontato una lunga detenzione per l'omicidio di un finanziere mentre era alla guida di un camion che trasportava sigarette di contrabbando. Gaetano, ancora minorenne, non accetta che il fratello rispetti la legge e frequenta il suo vecchio socio, Pilurussu, con cui sogna di cambiare il proprio destino scommettendo sui combattimenti di cani. Quando Precamuerti, un vecchio capobastone della Sacra corona unita, fa ritorno dalla latitanza, deciso a riorganizzare il mandamento provinciale, i fragili equilibri su cui si regge la comunità collassano in atmosfere e scontri da western meridionale.
Potremmo dire che Torre Languorina sia Torre Colimena, frazione di Manduria, all'estremità orientale del Salento cool. Potremmo dire che il personaggio di Pilurussu, già presente nel romanzo d'esordio di Di Monopoli, "Uomini e cani", è una specie di verghiano Rosso Malpelo.
Potremmo dire che questa terra calda e fittizia dove anche l'aria brucia, nel triangolo fra Lecce, Taranto e Brindisi, richiama la contea immaginaria di Yoknapatawpha di Faulkner (sovrapponibile alla contea di Lafayette, nel Mississipi), di cui Di Monopoli si dichiara estimatore e pugliese erede.
È il Salento di una sfilacciata Sacra Corona Unita e di prosaici eroi del sudore e della violenza, accanto ma lontanissimo dalle spiagge caraibiche e dalle masserie a cinque stelle. La masseria in cui Rocco e Gaetano vivono è quella decadente di famiglia, dove langue l'anziana madre malata a cui fa ritorno ogni sera Rocco, al volante dell'autocisterna con cui rifornisce d'acqua le località litoranee.
Solo alla fine si svela il rapporto tra i due fratelli, il segreto li lega e che sta alla lontana origine della sofferenza della madre, il vero colpevole dell'incendio che ha marchiato loro padre e loro stessi come un'onta per tutta la vita.
E qui, dove il romanzo avrebbe potuto innalzarsi, cade. Tre paginette in corsivo, tra la 205 e la 207, scritte in un italiano così piano e didascalico che sembrano scritte da un'altra mano. Una specie di voce fuori campo che rimette a posto le tessere del puzzle, con immancabile agnitio ed edipica nemesi.
Le stesse cose dette nel corpo del testo, lasciate intendere, persino lasciate in sospeso, avrebbero fatto un gioco migliore a un romanzo infuocato, spento alla fine dalla mano (spero) di un editor.

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Rubrica a cura di Stefano Motta
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