Suggerimento per il signor Fabio

Riguardo la "Società felice dove non mancava niente a nessuno, dove la povertà era solo un'utopia", mi permetto di suggerire al sig. Fabio di leggere - o rileggere - "Cristo si è fermato a Eboli", di Carlo Levi, Per chi fosse interessato, allego più sotto un breve stralcio in cui a interloquire con Carlo Levi, è la sorella Luisa, medico neuropsichiatra infantile. Il racconto si riferisce al settembre 1935, XIII E.F.
Grazie e b. lavoro a tutta la redazione.


Da "Cristo si è fermato a Eboli", Einaudi, facilmente reperibile sia in libreria sia online

"Dovevo passare a Matera per far vistare il mio permesso di visitarti a quella questura. Che paese, quello!". Era spaventata e piena di orrore per [ciò] che vi aveva visto. Io pensavo, e glielo dissi, che la vivezza della sua reazione fosse dovuta soltanto al fatto che non era mai stata da queste parti, e che proprio a Matera era avvenuto il suo primo incontro con questa natura e questa umanità desolata.
"Non conoscevo questi paesi, ma in qualche modo me li immaginavo, - mi rispose. - Ma Matera, come l'ho vista, non potevo immaginarla. Arrivai verso le undici del mattino. Avevo letto che è una città che merita di essere visitata, che c'è un museo di arte antica e delle curiose abitazioni trogloditiche. Ma quando uscii dalla stazione, un edificio moderno e piuttosto lussuoso, e mi guardai attorno, cercai invano con gli occhi la città.
La città non c'era. Ero su una specie di altopiano deserto, circondato da monticciuoli brulli, spelacchiati, di terra grigiastra seminata di pietrame. In questo deserto sorgevano, sparsi qua e là, otto o dieci grandi palazzi di marmo, come quelli che si costruiscono ora a Roma, l'architettura di Piacentini, con portali, architravi sontuosi, solenni scritte latine e colonne lucenti al sole. Alcuni di essi non erano finiti e parevano abbandonati, paradossali e mostruosi in quella natura disperata.
Dov'era la città? Matera non si vedeva. Mi misi a cercarla. Arrivai a una strada, che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case, e dall'altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera. La forma del burrone era strana; come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune, dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca che pareva ficcata nella terra. Questi coni rovesciati, questi imbuti, si chiamano Sassi.
Hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l'inferno di Dante. E cominciai anch'io a scendere per una specie di mulattiera, di girone in girone, verso il fondo. La stradetta, strettissima, che scendeva serpeggiando, passava sui tetti delle case, se così si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone. Le porte erano aperte per il caldo. Io guardavo passando, e vedevo l'interno delle grotte, che non prendono altra luce e aria se non dalla porta.
Alcune non hanno neppure quella: si entra dall'alto, attraverso botole e scalette. Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Così vivono ventimila persone.
Di bambini ce n'era un'infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci. Io non ho mai visto una tale immagine di miseria: eppure sono abituata, è il mio mestiere, a vedere ogni giorno diecine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello di ieri non l'avevo mai neppure immaginato.
Ho visto dei bambini seduti sull'uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; e le mosche gli si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili, e non le scacciavano neppure con le mani. Sì, le mosche gli passeggiavano sugli occhi, e quelli pareva non le sentissero. Era il tracoma. Sapevo che ce n'era, quaggiù: ma vederlo così, nel sudiciume e nella miseria, è un'altra cosa.
Altri bambini incontravo, coi visini grinzosi come dei vecchi, e scheletriti per la fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria. Le donne, che mi vedevano guardare per le porte, m'invitavano a entrare: e ho visto, in quelle grotte scure e puzzolenti, dei bambini sdraiati in terra, sotto delle coperte a brandelli, che battevano i denti dalla febbre.
Altri si trascinavano a stento, ridotti pelle e ossa dalla dissenteria. Ne ho visti anche di quelli con le faccine di cera, che mi parevano malati di qualcosa di ancor peggio che la malaria, forse qualche malattia tropicale, forse il Kala Azar, la febbre nera. Le donne, magre, con dei lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizzi, mi salutavano gentili e sconsolate: a me pareva, in quel sole accecante, di esser capitata in mezzo a una città colpita dalla peste".

Ivano Gobbato, Cassago Brianza
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