LIBRI CHE RIMARRANNO/63: ''Salvarsi a vanvera'' di Paolo Colagrande

"Salvarsi a vanvera" di Paolo Colagrande (Einaudi, pagg. 376, Euro 20,00) è uscito a marzo di quest'anno, a guerra esplosa e vicina a noi. Almeno quella in Ucraina, perché il mondo è pieno di guerre dimenticate e questa invece continua a fare molta notizia e dare molto dolore: una storia della fine della Seconda Guerra Mondiale mentre i giornali ne ventilavano una Terza.
Siamo infatti nell'autunno del 1943, in una zona imprecisata della provincia padana sotto l'occupazione nazista, mentre gli Alleati risalivano lo stivale e Mussolini si trastullava a Salò. I tedeschi e i repubblichini si trastullavano nel frattempo con la popolazione locale, esigendo, requisendo, imponendo.
In mezzo ci si trova Mestolari Aride, titolare di un emporio di generi alimentari originariamente destinati alla popolazione tramite tessera annonaria ma poi saccheggiato puntualmente dalle truppe di occupazione sotto il comando del maggiore Aginolf Dietbrand von Appensteiner.
È tutta la famiglia Mestolari (moglie, due figlie gemelle e il piccolo trovatello Cali, di quattro anni), oltre alle maestranze dell'emporio, a poterne pagare teoricamente dazio. Perché il Mestolari è ebreo, si chiamava Mozenic Aràd e solo con un magheggio all'anagrafe era riuscito a occultare la sua origine dietro una nuova identità. Ebrei sono anche i suoi lavoranti, e il rischio della deportazione è imminente.
Impostura per impostura, il Mozenic Mestolari affronta gli assalti della sorte con una faccia tosta leggendaria: appioppa ai tedeschi venuti per requisire il magazzino "caffè di ghiande, dei fagioli che non van bene neanche per la tombola e una cinquantina di tavolette di cioccolata di castagne dura come mattonelle di gres; e alla fine, come devoto omaggio, anche un carrello di Ovocrema Astrid vecchia di sette anni, che era più prudente buttar via, insieme a delle scatole di caviale di colla di pesce e cicoria, marca Babilonia, tinta per capelli Ordzak tonalità nero aubergine e gran crema de luxe Florence per calzature". E loro ne paiono persino soddisfatti.
E poi arriva il colpo di genio, quando si inventa l'esistenza di una miniera di "carbone giovane" la cui estrazione sarebbe naturalmente utilissima per le forze di occupazione ma che può essere condotta solo da maestranze del luogo, le uniche a non temere la Salamandra Ignifera Gigante Cinese che si aggira nella miniera e prende di mira tutti e solo i forestieri.
Per questo Aràd Aride improvvisa una squadra di lavoranti, ingegneri, geologi, scavatori, tecnici minerari tutti e solo rigorosamente autoctoni e altrettanto rigorosamente ebrei per far durare quel bluff il più a lungo possibile, fino a quando gli Alleati non arriveranno anche lì.
C'è chi ha voluto vederci "La vita è bella", per l'atmosfera giocosa e quasi irridente; chi ha rintracciato "Train de vie", il bellissimo di Radu Mihaileanu o forse più ancora quell'altro suo capolavoro, "Il concerto", dove una schiera di musicisti ebrei impostori si fa passare nientemeno che per l'orchestra del Bol'šoj. C'è anche un po' di "Schindler's list", a ben vedere, ma meno drammatico e più sconclusionato.
La voce narrante sembra vaga, imprecisa, quasi inadatta al dramma: ha le cadenze lente e rilassate della Bassa Padana, con quell'andirivieni colloquiale e musicale di espressioni gergali e di rassegnazione pacata: "non so se l'ho già detto", ripete spesso. Oppure: "e non diciamo nient'altro, per adesso."
È scritto a vanvera, come se lo stile fosse un correlativo oggettivo del contenuto, di quel modo di agire casuale, improvvisato, fatalista ma istintivamente funzionale, con cui si muove il protagonista: a vanvera, appunto.
Chi racconta è una delle due gemelle, e pare che lo faccia in presa diretta: per questo le si concede il beneficio della vista corta dei bambini, che non percepiscono la grandezza del dramma oltre il loro piccolo mondo. Che le coordinate siano quelle che ho detto sopra non c'è dubbio, eppure le parole "nazisti", "guerra", "fascisti", "duce", "Mussolini" non compaiono mai, come in una realtà trasfigurata o sfuggente.
Poi si capisce che lo racconta da anziana, riattingendo ai suoi ricordi di bambina. E allora le si perdona la vista miope di chi ormai vede male le cose lontane. O forse ha imparato a relativizzarle, a non inseguire a tutti i costi un senso ma a custodire il senso dentro il nido dei rapporti famigliari, e per questo si è salvata. A vanvera.
Rubrica a cura di Stefano Motta
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