LIBRI CHE RIMARRANNO/59: ''La penultima illusione'' di Ginevra Bompiani

Ci sono cognomi che pesano e che predispongono. Ginevra Bompiani non se ne fa scudo né vanto. La foto di copertina del suo ultimo libro, "La penultima illusione" (Feltrinelli, pagg. 324, euro 19) è di una tenerezza disarmante: il padre, Valentino, grande editore, gioca a solitario con la pipa in bocca sotto lo sguardo attento delle due figlie, Emanuela, la maggiore, e Ginevra, che pare sul punto di parlare, di suggerire, di intervenire, con la sfacciata dolcezza che solo i bambini piccoli hanno.
È con questa prosa dolce e nuda che ci si consegna in questo libro dai toni diaristici e molto intimi, in un andirivieni tra passato e presente (i capitoli indicano gli anni e i diversi piani temporali si intrecciano con analessi, prolessi, squarci che rivelano parallelismi suggestivi), tra vita privata e successi pubblici, che rende faticoso collocare "La penultima illusione" in un genere preciso: è diario? È taccuino? È un romanzo? Non lo so. È un mémoir? Non mi piace il termine. È uno zibaldone? Anche. È bello? Sì!
È colpa o merito di N., una adolescente somala di cui Ginevra è tutrice legale, se si apre questa "piccola voragine" del tempo: il loro dialogo reso difficile dalla mancanza di un comune substrato lessicale deve per forza fondarsi su un altro substrato condiviso, più ancestrale e trascendente, che è quello della femminilità e della grazia, della tenerezza filiale e della sollecitudine materna.
Figlia di Valentino Bompiani, Ginevra ripercorre i viaggi e le amicizie, gli incontri con i grandissimi della cultura e della letteratura del Novecento, Umberto Eco, Italo Calvino, Elsa Morante, Giorgio Manganelli, Giorgio Agamben, Martin Heidegger.
Nel desiderio di favorire l'"impaesamento" di N. - che bello questo concetto, più forte di "inclusione" o "integrazione", più terreno e più romantico nel senso letterario del termine - capisce Ginevra che anche lei si sta impaesando in N., perché così è e deve essere.
Il libro racconta una vita ricchissima e per molti versi fortunata che si rimette in discussione di fronte agli occhi spaesati e agli interrogativi profondi di N.: le confidenze sulle strategie per evitare le percosse da parte degli adulti nel villaggio, sull'indossare più strati di magliette e vestiti per attutire le vergate, sul dolore dell'infibulazione si sovrappongono al racconto dell'infanzia e della prima adolescenza di Ginevra, con la tata Selle e poi nel convitto, a bere "l'acqua salata della crudeltà infantile".
Per chi nella vita ha avuto moltissimo e fatto ancora di più, N. è adesso un dono: "Ho lasciato andare tante cose", scrive a un certo punto Ginevra, ed elenca la laurea in Psicologia, il Pesanervi - la collana Bompiani di cui fu curatrice -, l'università, il progetto delle Biblioteche del Deserto, nottetempo, la casa editrice che poi lei stessa ha fondato: "non si erano esaurite, se non dentro di me. A ciascuna di loro avrei potuto dedicare la vita, e invece no. Quando ho smesso di inventarle le ho lasciate andare".
Perciò N. pare "un dono d'addio". "Prezioso, pregiato, ma volatile come un profumo d'arrosto". E tutti gli altri progetti che ancora avrebbe le paiono rimbalzare come biglie per terra: "Per quante altre illusioni ho tempo?", si chiede.
Perché non è facile crescere N.: il lockdown costringe alla vicinanza e acuisce gli spigoli, e le sofferenze nascoste del suo passato non smettono di farle male. Si allontana, si riavvicina, sfugge e torna.
Non ho mai citato il finale di un libro, ma voglio farlo per questo, perché come si sarà capito l'intreccio di piani temporali lo rende sfuggente e profondo: non c'è una trama da non svelare, ci sono i nodi su cui soffermarsi. Alcuni si sciolgono, altri si irrigidiscono. L'ultima frase dell'ultima pagina, quando N. rientra, dice così: "È tornata. La casa canta".
È questo tono, familiare ma elegantissimo, che steso su tutte le 319 pagine ci regala momenti di vera poesia.

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Rubrica a cura di Stefano Motta
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