LIBRI CHE RIMARRANNO/58: Macchiavelli e il ''Funerale dopo Ustica'', un caso editoriale

"Se si arriva a censurare la letteratura, vuol dire che va male, che molte, troppe cose non funzionano, ma soprattutto che è in corso una mutazione genetica della nostra gente. Una mutazione che ci fa accettare anche gli avvenimenti per i quali, un tempo (quando?) avremmo protestato, saremmo scesi in piazza."
Scriveva così Loriano Macchiavelli nel 2011, quando la progettata riedizione Einaudi del suo "Funerale da Ustica" fu bloccata da un parere legale, "a scanso di guai economici incombenti, dato l'argomento".

La nuova uscita di questo romanzo adesso, con SEM (520 pp., Euro 20,00) è perciò una notizia, quasi un caso editoriale.
Quando venne pubblicato nel 1989 per Rizzoli portava in copertina il nome di tale Jules Quicher, "esperto di problemi di sicurezza in una famosa multinazionale svizzera". C'era prudenza e affettazione nella scelta dello pseudonimo: la seconda doveva smentire la convinzione che gli italiani non fossero capaci di scrivere delle vere spy stories, la prima avrebbe dovuto mettere al riparo da polemiche politiche e legali. Non servì, poiché il secondo romanzo di Quicher-Macchiavelli, "Strage", sui fatti di Bologna del 2 agosto 1980, fu ritirato dall'editore a causa della denuncia di uno degli imputati di quella strage che diceva di essersi riconosciuto in uno dei personaggi del libro.
Per questo la nuova edizione di "Funerale dopo Ustica", non una semplice ristampa, perché Macchiavelli ha messo mano ampiamente al testo, con rimaneggiamenti e aggiunte, è un'operazione meritoria e coraggiosa.
Ho incontrato Loriano a Lecco ormai tanti anni fa, e ricordo la saggia pacatezza di un maestro, il maestro di tanti scrittori bolognesi venuti su accanto e dopo di lui, per certi versi il papà del noir italiano. Era in finale al Premio Manzoni con il terzo dei suoi romanzi dedicati alle stragi italiane ancora irrisolte e incomprese, "Noi che gridammo al vento", sulla strage di Portella della Ginestra del 1947: la riedizione di "Funerale dopo Ustica" rende disponibile ai lettori nella sua interezza questo trittico drammatico e avvincente.
Il romanzo è fluviale, più di 500 pagine, e talora ondivago. Il gioco degli pseudonimi si amplifica nel caleidoscopio di personaggi dai nomi surreali, quasi felliniani o calviniani (Bellamia - nome calzante per una prostituta dei Parioli -, Victorhugo, Il Maggiore, Pazienza, Primo, Secondo, Standish Husky) e l'atmosfera iniziale va compresa e pazientemente apprezzata: tra le prime 230 pagine e i romanzi di John Le Carré, Eric Ambler, Ian Fleming, ma anche più prosaicamente di Ludlum, c'è la stessa differenza che passa tra uno 007 con Sean Connery e un film di spionaggio con Michael Caine, c'è quella sensazione di dimessa inadeguatezza che fa guidare al funzionario dei Servizi Segreti Stefano Degiorgi una Fiat 124, non una Aston Martin DB-5, mentre l'inafferrabile sicario ha una Ferrari parcheggiata nel suo buen retiro tra la Francia e Barcellona. In mezzo c'è la sorte del Vecchio, il presidente più amato degli italiani, imprevedibile e umorale fumatore di pipa, e chiunque di noi ricordi chi era il presidente in carica nei nostri anni Ottanta ben capirà.

La seconda parte del romanzo convince molto di più. Moltissimo di più. C'è il Forsyth del "Giorno dello sciacallo" in filigrana, ma non dico di più. C'è un nemico che pare prevedere tutte le mosse, e poiché non è Nostradamus una gola profonda o di più ancora dovrà pur esserci.
Ustica è l'evento simbolo, il DC-9 è l'agnello sacrificale di un gioco a incastro di complotti e segreti.
Non leggetelo per capire finalmente come è caduto il DC-9 Itavia: in questi anni è stato detto tutto e il contrario di tutto, e questo è solo un romanzo.
Leggetelo per capire perché.
Perché anche se questo è solo un romanzo, sa dire moltissimo di quella che fu la nostra Italia di quegli anni. E forse non solo di quelli.

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Rubrica a cura di Stefano Motta
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