LIBRI CHE RIMARRANNO/57: ''Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR'' di Bertante
Ci sono libri molto più brutti rispetto ai testi dei risvolti di copertina che li riassumono o alle recensioni più o meno pubblicitarie che li lanciano, e ce ne sono di molto più belli. Spero di non far danni, allora, con questo mio pezzo.
"Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR", l'ultimo libro di Alessandro Bertante (Baldini+Castoldi, pagg. 208, Euro 17,00) viene presentato nell'aletta come un romanzo "che non cerca facili risposte ma che apre nuove domande su uno dei periodi più drammatici della recente storia italiana". "Non cerca facili risposte ma apre nuove domande" è una formula talmente stereotipata che andrebbe bandita dalla tastiera di ogni bravo editor al pari di altre banalità in cui noi giornalisti siamo del resto maestri ("nella morsa del gelo", "abbassiamo i toni", "aprire un tavolo di confronto", "correre in edicola", "raggiunto da un avviso di garanzia" e altre). Ma "un libro non si giudica dalla copertina", appunto.
Le recensioni di "Mordi e fuggi" insistono molto sul suo contenuto, che è interessante ma che non è tutto.
Bertante ci immerge nella Milano del 1970, quando Renato, Mara, Alberto "il Mega", Mario, Osvaldo, Marco fondano le Brigate Rosse.
Hanno nomi senza cognome i personaggi di Bertante, alcuni si celano dietro pseudonimi nella scia della lotta partigiana, come Osvaldo-GianGiacomo Feltrinelli, di altri non fatichiamo noi ad associarli al loro cognome: Renato Curcio, Alberto Franceschini, "Mara" Margherita Cagol, Mario Moretti, Marco Pisetta. L'unico di cui conosciamo nome e cognome, Alberto Boscolo, Alberto in onore di Albert Camus, è l'unico che non riusciamo a rintracciare nella cronaca e nella storia di quegli anni. Si è sempre detto che nel passaggio dal Collettivo Politico Metropolitano a Sinistra Proletaria, al convegno alla "Stella Maris di Chiavari e poi a Pecorile, per la scelta della lotta armata e la fondazione vera e propria della Brigata Rossa, poi tristemente ancor più famosa al plurale, le persone coinvolte non furono solo i tre fondatori storici - Curcio, la moglie Margherita Cagol, e Franceschini -, ma che ci furono almeno un paio di altri esponenti di cui nessuno, nemmeno i brigatisti catturati o "pentiti" (come l'ex guida alpina Marco Pisetta), fece mai il nome.
Alberto Boscolo, giovane studente universitario appena ventenne, personaggio con dati anagrafici di invenzione eppure verosimilissimo, è uno di questi.
E parla in prima persona dalle pagine del romanzo di Bertante. Parla, dico, perché il registro stilistico scelto da Bertante ricalca alcuni suoi stilemi già apprezzati in "Gli ultimi ragazzi del secolo" (Giunti, 2016) ma con un coraggio e una libertà migliori: il discorso indiretto libero di "Mordi e fuggi" ci restituisce insieme il tono avvitato e cervellotico della retorica brigatista (chi ha in mente certi comunicati filosofeggianti e farneticanti delle BR su "Re Nudo" sa di cosa parlo) e il flusso di coscienza squadernato di un inetto.
Mentre bruciano le auto dei "quadri" della SIT-Siemens, rapinano i portavalori per autofinanziare la lotta, programmano la "propaganda del fatto", sequestrano l'ingegnere Idalgo Macchiarini, lo tengono prigioniero per mezz'ora in auto, il tempo di scattargli una polaroid con in mano un cartello con la stella dalla punta tozza e lo slogan «Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato!», mentre tutto questo si compie, Alberto Boscolo si misura con il parossismo delle sue grandi ambizioni: "Tutte le brave persone pensano alle conseguenze. Vadano a fare in culo loro e tutte le possibili conseguenze di oggi e di domani, perché se pensiamo sempre e solo alle conseguenze ogni nostro gesto diventa inutile, siamo come una pistola che spara a salve".
Quando poi, grazie a una soffiata, la Questura di Milano riesce a scoprire il covo di via Boiardo, Alberto Boscolo scompare. Non come scompariranno Curcio, Franceschini, la Cagol e gli altri, passati alla lotta clandestina. Scompare nell'anonimato di un popolo che non ha motivo di lottare: "Basta cambiare per un momento la prospettiva dello sguardo e tutte le convinzioni crollano, come è semplice piegare la realtà per giustificare le proprie scelte, anche quelle più stupide. Le persone non sono ignare, non sono innocente, non sono pecore da pascolare eppure stanno proprio in mezzo. Li vedo bene adesso, non sono molto diversi da me. Perché questa gente dovrebbe imbracciare le armi, che motivo hanno per una scelta così estrema? Che motivo ho io, alla fine?".
Non si riesce ad apprezzarla come una reale presa di coscienza e si ha l'impressione che sia una scelta di comodo, come di comodo è stata prima la lotta armata, in una figura di combattente iroso ma inetto che forse è la denuncia più vera della nudità di quella "guerra immaginaria", come gli sbatte in faccia chiaramente l'amico della libreria antiquaria: il ribelle che voleva mettere a nudo il re si ritrova nudo lui.
"Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR", l'ultimo libro di Alessandro Bertante (Baldini+Castoldi, pagg. 208, Euro 17,00) viene presentato nell'aletta come un romanzo "che non cerca facili risposte ma che apre nuove domande su uno dei periodi più drammatici della recente storia italiana". "Non cerca facili risposte ma apre nuove domande" è una formula talmente stereotipata che andrebbe bandita dalla tastiera di ogni bravo editor al pari di altre banalità in cui noi giornalisti siamo del resto maestri ("nella morsa del gelo", "abbassiamo i toni", "aprire un tavolo di confronto", "correre in edicola", "raggiunto da un avviso di garanzia" e altre). Ma "un libro non si giudica dalla copertina", appunto.
Le recensioni di "Mordi e fuggi" insistono molto sul suo contenuto, che è interessante ma che non è tutto.
Bertante ci immerge nella Milano del 1970, quando Renato, Mara, Alberto "il Mega", Mario, Osvaldo, Marco fondano le Brigate Rosse.
Hanno nomi senza cognome i personaggi di Bertante, alcuni si celano dietro pseudonimi nella scia della lotta partigiana, come Osvaldo-GianGiacomo Feltrinelli, di altri non fatichiamo noi ad associarli al loro cognome: Renato Curcio, Alberto Franceschini, "Mara" Margherita Cagol, Mario Moretti, Marco Pisetta. L'unico di cui conosciamo nome e cognome, Alberto Boscolo, Alberto in onore di Albert Camus, è l'unico che non riusciamo a rintracciare nella cronaca e nella storia di quegli anni. Si è sempre detto che nel passaggio dal Collettivo Politico Metropolitano a Sinistra Proletaria, al convegno alla "Stella Maris di Chiavari e poi a Pecorile, per la scelta della lotta armata e la fondazione vera e propria della Brigata Rossa, poi tristemente ancor più famosa al plurale, le persone coinvolte non furono solo i tre fondatori storici - Curcio, la moglie Margherita Cagol, e Franceschini -, ma che ci furono almeno un paio di altri esponenti di cui nessuno, nemmeno i brigatisti catturati o "pentiti" (come l'ex guida alpina Marco Pisetta), fece mai il nome.
Alberto Boscolo, giovane studente universitario appena ventenne, personaggio con dati anagrafici di invenzione eppure verosimilissimo, è uno di questi.
E parla in prima persona dalle pagine del romanzo di Bertante. Parla, dico, perché il registro stilistico scelto da Bertante ricalca alcuni suoi stilemi già apprezzati in "Gli ultimi ragazzi del secolo" (Giunti, 2016) ma con un coraggio e una libertà migliori: il discorso indiretto libero di "Mordi e fuggi" ci restituisce insieme il tono avvitato e cervellotico della retorica brigatista (chi ha in mente certi comunicati filosofeggianti e farneticanti delle BR su "Re Nudo" sa di cosa parlo) e il flusso di coscienza squadernato di un inetto.
Mentre bruciano le auto dei "quadri" della SIT-Siemens, rapinano i portavalori per autofinanziare la lotta, programmano la "propaganda del fatto", sequestrano l'ingegnere Idalgo Macchiarini, lo tengono prigioniero per mezz'ora in auto, il tempo di scattargli una polaroid con in mano un cartello con la stella dalla punta tozza e lo slogan «Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato!», mentre tutto questo si compie, Alberto Boscolo si misura con il parossismo delle sue grandi ambizioni: "Tutte le brave persone pensano alle conseguenze. Vadano a fare in culo loro e tutte le possibili conseguenze di oggi e di domani, perché se pensiamo sempre e solo alle conseguenze ogni nostro gesto diventa inutile, siamo come una pistola che spara a salve".
Quando poi, grazie a una soffiata, la Questura di Milano riesce a scoprire il covo di via Boiardo, Alberto Boscolo scompare. Non come scompariranno Curcio, Franceschini, la Cagol e gli altri, passati alla lotta clandestina. Scompare nell'anonimato di un popolo che non ha motivo di lottare: "Basta cambiare per un momento la prospettiva dello sguardo e tutte le convinzioni crollano, come è semplice piegare la realtà per giustificare le proprie scelte, anche quelle più stupide. Le persone non sono ignare, non sono innocente, non sono pecore da pascolare eppure stanno proprio in mezzo. Li vedo bene adesso, non sono molto diversi da me. Perché questa gente dovrebbe imbracciare le armi, che motivo hanno per una scelta così estrema? Che motivo ho io, alla fine?".
Non si riesce ad apprezzarla come una reale presa di coscienza e si ha l'impressione che sia una scelta di comodo, come di comodo è stata prima la lotta armata, in una figura di combattente iroso ma inetto che forse è la denuncia più vera della nudità di quella "guerra immaginaria", come gli sbatte in faccia chiaramente l'amico della libreria antiquaria: il ribelle che voleva mettere a nudo il re si ritrova nudo lui.
Rubrica a cura di Stefano Motta