LIBRI CHE RIMARRANNO/52: ''Il quartetto Razumovsky'' di Paolo Maurensig
Diceva Umberto Eco che un autore non deve fornire interpretazioni della propria opera, altrimenti non avrebbe scritto un romanzo, che è una macchina per generare interpretazioni. Anzi, "l'autore dovrebbe morire dopo aver scritto. Per non disturbare il cammino del testo". Che è purtroppo quello che è accaduto a Paolo Maurensig dopo aver terminato la stesura di quello che oggi Einaudi pubblica come suo ultimo e postumo romanzo, "Il quartetto Razumovsky" (Einaudi, 2022, pp. 143, Euro 17,50).
Il titolo fa riferimento ai quartetti per archi composti da Beethoven agli inizi dell'800 per il conte Andrej Kirillovič Razumovskij,, ambasciatore russo a Vienna, e quattro sono i musicisti che si erano dati questo nome quando, poco più che ragazzi, avrebbero dovuto esibirsi nel primo di questi quartetti, l'opera 59 in fa maggiore, nientemeno che davanti al Führer.
Tre uomini e una donna. Tre tedeschi e uno no. Tre corretti (secondo i dettami del regime) eterosessuali e uno no. Basterebbe anche solo una di queste dinamiche (gli affetti e gli amori incrociati, o le pulsioni omosessuali, o il sospetto antisemita) per far stonare la melodia interna del quartetto: nella storia raccontata da Maurensig ci sono tutte e tre, alle quali la voce narrante aggiunge del suo. Chi racconta è Rudolf Vogel, tedesco emigrato negli Stati Uniti col nuovo cognome "Fowl", che è assonante rispetto al primo ma che contiene in sé un anagramma sinistro. Per una serie di circostanze fortuite Vogel, secondo violino di quel quartetto e ora scrittorucolo in Montana, ritrova gli altri tre suoi compagni dell'epoca, e l'incontro fa riemergere quel passato carsico che credevano sotterrato. La passione per la musica, col progetto di ricomporre il quartetto e suonare Beethoven per la piccola comunità di Hamburg, nel Montana, e i ricordi degli anni del Reich.
Chi racconta però questi ricordi li ha confusi, disarticolati, imprecisi. Un incidente d'auto ha provocato a Vogel un danno neurologico degenerativo che ha eroso la sua memoria a lungo e medio termine. Per questo noi scopriamo tardi nel romanzo, insieme a lui, quello che lui era stato all'epoca dei lager nazisti. Ma lo scopriamo nello stesso modo nebbioso e nevrotico con il quale Vogel riesce ad attingere al proprio passato. La prosa di Maurensig, che si è sempre distinta per eleganza e musicalità, è in questo romanzo pastosa e contorta. L'editore precisa in una nota preliminare di non aver voluto intervenire sulle bozze consegnate dall'autore, se non emendando qualche svista evidente, e rimane l'impressione di un romanzo non completamente risolto, talora impacciato e lutulento.
A meno che non sia un voluto artificio di regressione, e lo stile non sia volutamente consonante con la patologia del protagonista-narratore, che non è solo una patologia di ordine neurologico.
Perché, oltre che suonare il violino nel quartetto Razumovsky, chi dice "io" in queste pagine era "il Torturatore" di Bergen-Belsen, e il Male che egli ha compiuto con dedizione quasi eccessiva, come a voler per contrappasso contrastare la sua omosessualità così disonorevolmente antiariana, si risveglia quando i fatti del Montana risvegliano la sua memoria.
Maurensig ha debuttato in modo folgorante nel mondo della narrativa con quel suo sorprendente romanzo d'esordio, "La variante di Lüneburg", uno dei romanzi più belli che io abbia letto, e ha proseguito con ancor maggior successo con "Canone inverso". Questo suo ultimo costituisce una sorta di chiusura di questa trilogia. Degli altri due conserva l'ambientazione storica e la questione ebraica come motore della vicenda, dal secondo riprende la filigrana musicale, dal primo la soffocante sensazione di un Male inesorabile.
Non riesce ad avere la potenza fascinosa di nessuno di essi, purtroppo. O forse non vuole. La voce narrante ci restituisce la sensazione di un male prosaico, efficientista, pragmatico e disallineato da qualsiasi rettitudine umana o morale. Sospese tra Svevo (c'è una psichiatra junghiana come punto di svolta), Kafka e Hitchcock, alcune scene ci fanno sospettare che la malattia di cui soffriva Herr Vogel non fosse né l'omosessualità né la perdita di memoria. Si chiamava nazismo, ed è inguaribile.
Poteva essere scritto meglio, forse, con una revisione più lunga a opera dell'autore, che purtroppo è morto. O forse questa storia andava raccontata proprio così, in modo contorto e incomprensibile, perché il male è stupido e non c'è un modo affascinante per parlarne.
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Rubrica a cura di Stefano Motta