Merate: incontro all'Agnesi sulle 'misure alternative alla pena'. Perchè, ''Non bisogna inchiodare l’uomo alla sua condanna''


È continuato martedì mattina al liceo Agnesi di Merate il ciclo di incontri all'interno del percorso di educazione civica sul rapporto tra giustizia e pena, iniziato lo scorso lunedì 7. Il progetto ha visto coinvolti quattro classi del liceo Agnesi, due per il linguistico e due per lo scientifico, che hanno avuto la possibilità di comprendere meglio il concetto di giustizia riparativa. Relatrici dell'incontro titolato "Le misure alternative alla pena: risposte del territorio. Percorsi, opportunità e ostacoli" erano infatti la dottoressa Micaela Furiosi - responsabile dell'area giustizia, legalità e comunità della Società Cooperativa Sociale Arcobaleno Onlus - e la dottoressa Gaia Ferni, coordinatrice della comunità Casa Abramo e operatrice della coop sociale.

Da sinistra le dottoresse Gaia Ferni e Micaela Furiosi, Riccardo e Biagio


Se nel precedente incontro (CLICCA QUI) gli alunni hanno ricevuto una "infarinatura" generale sul concetto di rieducazione della pena, così come previsto al comma 3 dell'articolo 27 della Costituzione italiana, richiamato nell'introduzione della professoressa Cristina Mazza (referente del progetto), oggi i ragazzi hanno avuto la possibilità di comprendere meglio cosa effettivamente sia una comunità che opera per reinserire un soggetto in difficoltà, cosa può fare la società nei confronti di queste persone e inoltre hanno avuto l'occasione di ascoltare le storie di due attuali ospiti della Casa Abramo.



La prima a prendere parola è stata la dottoressa Micaela Furiosi della Coop. Sociale Arcobaleno, psicologa/psicoterapeuta che si è specializzata sulla psicologia giuridica. Nel suo discorso la dottoressa ha raccontato cosa l'ha spinta a scegliere questa strada: "anche io come voi ho fatto il liceo scientifico" ha detto la dott. Furiosi, "quando ero adolescente ho scoperto che al mondo esistevano le droghe ma non ci ho mai avuto a che fare. Purtroppo così non è stato per un mio caro amico. Ho trasformato così il mio spavento in un'opportunità: quel giorno ho deciso che da grande avrei lavorato in una comunità". Dopo l'esperienza alle scuole superiori e il percorso universitario a Torino, la dott.ssa è diventata operatrice in una comunità ad Asti. Illustrando le differenze tra i tre modelli di giustizia (retributiva, rieducativa e riparativa), la dottoressa ha spiegato che l'obiettivo degli operatori sociali è quello di accogliere, accompagnare, reinserire e permettere i progetti di reinserimento sociale dei soggetti con cui lavorano: fondamentale è infatti che la società non rimanga ancorata al vissuto di vittima che ha sofferto un'ingiustizia, anche non diretta, da parte di un soggetto perchè altrimenti sarà una società espulsiva che non permetterà il successo di quel progetto. Necessaria è ovviamente, oltre all'apertura della società, anche la volontà di farcela del soggetto che ha causato un danno, perchè senza quell'ammissione di responsabilità il progetto è destinato ad un fallimento.

La prof. Cristina Mazza

"Il lavoro di operatore di comunità diventa un lavoro efficiente dal momento in cui dalla comunità di accoglienza si guarda fuori, dalla comunità si tiene lo sguardo attento verso l'esterno" ha continuato la relatrice, "e la cura sempre viva per sollecitare contaminazioni virtuose". Nel concreto Lecco sta facendo dei percorsi verso l'orizzonte di "città riparativa", avendo posto le basi per un tavolo di cittadini volontari, referenti e rappresentanti delle organizzazioni no profit e anche degli enti pubblici che lavorano e attivano sia pratiche riparative - ad esempio incontri tra vittime e autori di reato - ma anche creano laboratori all'interno delle scuole e incontri di sensibilizzazione alla cittadinanza. In particolare sono stati aperti in provincia tre "angoli riparativi", che sono spazi di comunità dentro i quali i cittadini trovano materiale consultabile e dove si svolgono attività. "La giustizia riparativa" ha concluso la dottoressa, "non è una giustizia buona ma vuole essere una buona giustizia mediante la volontà di assunzione di responsabilità dell'evento dannoso da parte del suo autore, che non deve essere una mera presa di posizione per via di una strategia processuale. Noi operatori accogliamo la persona, non il reato". Ed è proprio per questo motivo che nella hall di Casa Abramo è stata appesa la frase, realizzata dagli ospiti durante il laboratorio di falegnameria, di Papa Francesco "non bisogna inchiodare l'uomo alla sua condanna".

Successivamente è intervenuta la dott.ssa Gaia Ferni, anch'ella operatrice della Coop. Arcobaleno, coordinatrice della Casa Abramo. La struttura, come spiegato dalla relatrice, è stata voluta nel 1996 da don Mario Proserpio - all'epoca cappellano della casa circondariale di Lecco - che aveva avuto l'intuizione di creare uno spazio a disposizione di quelle persone che avessero avuto il diritto di scontare in una maniera alternativa la propria pena detentiva ma senza un domicilio presso cui alloggiare. Casa Abramo è una comunità (maschile) residenziale socioeducativa, ovvero una struttura che ospita persone con fragilità che ci vivono 24 ore su 24, seguita anche di notte da operatori sociali, educatori e anche oss. "L'idea di don Mario non era quella di creare un piccolo carcere" ha spiegato la dott.ssa Ferni, "ma quella di creare una struttura a cui potessero rivolgersi gli uomini con un disagio sociale: Casa Abramo accoglie sì persone che devono scontare la loro condanna ma anche persone che sono libere e che si sono trovate in una situazione di disagio causato anche da altre situazioni, come ad esempio la perdita del lavoro". L'equipe che lavora nella struttura si occupa di modellare dei processi di inclusione sulla singola persona e sulle sue caratteristiche principali, motivo per cui non vi è un limite di tempo per l'alloggio: ci possono essere percorsi brevi oppure permanenze lunghe anche più di due anni. Entrando più nel dettaglio, la dottoressa Ferni ha spiegato che la Casa ha la possibilità di accogliere fino a 15 persone (ad oggi ridotte di un'unità in quanto la problematica del covid ha costretto loro a togliere un posto letto) che vengono inserite in una routine ben precisa: "gli ospiti si comportano esattamente come se fossero in un contesto abitativo" ha illustrato la relatrice, "si mangia tutti insieme, abbiamo degli spazi di orientamento sul territorio accompagnando gli ospiti in tutti quei luoghi utili per il loro reinserimento. Tenete conto che questa struttura è una casa a tutti gli effetti e che ci vivono 14 persone che non si sono scelte, con stili di vita e vissuti completamente diversi. Per noi l'impatto educativo è molto importante".

Gli ospiti di Casa Abramo, come spiegato dalle relatrici, non sono per forza soggetti residenti in provincia: possono infatti arrivare anche da carceri dell'hinterland milanese, grazie alla collaborazione con la Caritas Ambrosiana che rileva dei potenziali inquilini all'interno delle case circondariali.
Terminata la fase di spiegazione e introduzione, gli studenti, divisi in due gruppi e radunatisi a forma di cerchio, hanno avuto la possibilità di dialogare con Biagio e Riccardo, due ospiti della struttura che hanno raccontato il loro vissuto e cosa stanno facendo insieme alle operatrici durante il loro percorso.
Il prossimo incontro sarà invece l'ultimo di questo progetto e vedrà tornare le due relatrici del secondo incontro, le dott.sse Micaela Furiosi e Gaia Ferni, oltre a don Marco Tenderini, cappellano del carcere di Lecco, e il dottor Marco Bellotto, garante dei diritti dei detenuti della provincia.
Beatrice Frigerio
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