Riflessione post referendaria

E se Dio avesse inventato la morte per farsi perdonare la vita?
(Gesualdo Bufalino)

Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano, ma sono ovunque noi siamo.
(Agostino d'Ippona)


Pensa come una breve parola come "fine" possa portare a termine lunghe esperienze; la si può dire in un soffio, la si può sillabare, senza rendersi conto che nella sua brevità si pone la linea da cui non si può tornare; è la linea d'ombra che straccia il passato, che seppellisce i ricordi, che fa scomparire le ombre e le incertezze.
"Fine" è la determinazione di una scelta, l'assolvere un rito di passaggio, il desiderio di cambiamento e forse anche la liberazione da catene.
"Fine" non è solo una stazione d'arrivo, ma anche quella della partenza che allontana, che separa, che cancella i momenti precedenti e la sua brevità è solo l'attimo della scomparsa, della separazione, di un addio.
Bisogna dirla con parsimonia questa parola, ma se viene detta deve essere chiaro che non ci può essere ritorno: fine è il sospiro del passato, l'afflato dolce e amaro di una separazione, di un salutare addio; fine è l'ultimo estremo saluto al passato, il sorriso che si spegne su una guancia, uno sguardo che si abbassa ed occhi che si chiudono.
Fine non è un saluto, non è un addio, un arrivederci, un ciao; fine è la conclusione di un rapporto, di una vita, di un gioco, di un amore, di una stagione difficile; fine è semplicemente il" non c'è più nulla da dirsi o da fare", è il terminale della speranza, è andiamo oltre; è il tradire in senso greco, come superare, passare, andare avanti.
Come puoi scrivere una simile parola? Non con una matita, non con una penna, ma con un bisturi che incida la tua pelle, che laceri il tuo cuore in attesa che sia poi il tempo a ricucirne le ferite.
"Fine" è la parte finale di un pensiero, di una riflessione che non trova più agganci, possibilità, speranze e nessuna risposta a domande che hanno perso il senso, "fine" è anche l'incapacità di dare risposte.
"Fine" sono i silenzi, le mancate parole, il non cercarsi, l'accampare scuse, il vuoto di desideri.
"Fine" sono io al termine del mio viaggio, con l'approssimarsi del mio inverno, con la stanchezza per una qualsiasi ricerca, "fine" è la resa, il sentire il fiato della sconfitta, è la lunga ombra di una mano che ti cattura o che ti lascia andare, "fine" è l'aprire gli occhi di fronte al futuro per una nuova avventura.
Ecco "fine" è quello che oggi aspettiamo: la fine di un incubo, la fine di un contagio, la fine di solitudine forzata e non voluta. La fine come desiderio di uscita, di aria, di amici e strette di mano; fine come "ancora noi ci siamo", noi testardi a morire, noi che non ci arrendiamo, noi vivi con l'anima in frantumi che ora ci riconciliamo con quel mondo che ci ha dimostrato di essere piu forte di noi.
Alla mattina mi reco quotidianamente a prendere il giornale, talvolta un poco di spesa; passo dalla mia via che sembra una main street di un western B-movie, dove due pistoleri sembrano affrontarsi; mancano solo quei cespugli polverosi tipici del west e agitati da vento: in giro nessuno, il deserto, ma non dei tartari, non c'è nulla da aspettare, cammino in mezzo alla strada; emozione poco vivibile nella normalità, che mi ricorda i mesi di agosto nella calura cittadina della grande città di Milano, ma allora almeno qualche passante e il vociare confuso di gente. Oggi nulla di questo, silenzio, nessun passante, un'idea lontana di paura, una sensazione di disagio, il mio bar preferito chiuso, nessun saluto da dare, solo le mani in tasca provano calore.
Code silenziose nei pochi esercizi aperti, nessuno parla quasi per paura di inghiottire l'orrido mostro che tanto panico ha generato e tutti in stretto riserbo pensare alla fine o che non si possa vedere la famosa "luce in fondo al tunnel" o peggio ancora, come direbbe Woody Allen, che sia un treno che ci viene addosso in senso contrario.
Sarà quando pronunzieremo quella parola, fine, quando la leggeremo sui giornali, quando la ascolteremo alla TV che trarremo un profondo respiro di liberazione, sarà allora che togliendoci quelle inutili mascherine respireremo a pieni polmoni un'aria a cui non eravamo più abituati. Sarà allora un misto di allegria, gioia e ottimismo che tornerà a prenderci, ci strapperà un sorriso, ci ruberà una risata fresca, squillante, forte come un'amicizia.
Gradualmente torneremo alla normalità, assaggeremo la ripristinata libertà con la stessa ingordigia di chi affamato si getta su di un succulento piatto: sarà un'orgia di gioia, di strilli, di risa, berremo un calice di troppo per festeggiare l'oggi e il domani, forse abbracceremo amici e sconosciuti, forse ancora a distanza e decideremo che quel giorno andrà ricordato nei secoli dei secoli e chiameremo quel giorno "il giorno di noi vivi".
Si quel momento verrà, il tempo ci dirà quando, gli eroici operatori della sanità ci diranno quando e come, loro unici depositari spesso di verità scomode e noi allora dovremmo gridare: "Alive, alive!!" ricordando chi ci ha lasciato e consapevoli, forse, che hanno ora una vita migliore e che noi per primi dovremmo ringraziarli perché da loro e per loro oggi dovremo saper ricominciare meglio, con più attenzione per salvaguardare il terreno sui cui camminiamo, l'aria che respiriamo, perchè la bellezza appartiene al mondo e una vita migliore è ciò che possiamo avere oggi e domani e in questa vita.
Questa esperienza che vorrei fosse un rito di passaggio, come molti ne compiamo nella nostra vita, che diventi uno strato della nostra coscienza, quella modalità esperienziale che aiuta noi umani a crescere a capirci e a unirci.
Ognuno di noi avrà la sua fine, forse potremo sceglierla o forse sarà lei che sceglierà per noi; ancora oggi questo non è certo: la pigrizia decisionale di questo nostro paese, quelle incrostazioni dure a morire di una mentalità morale ed etica antica non favoriscono ipotesi di cambiamento; un cattolico credente dovrebbe gioire della possibilità di chiudere una vita di sofferenza perché dovrebbe aspettarlo nell'aldilà una vita migliore e il non decidere vieta l'andare verso una vita migliore e diventa solo un atto di egoismo che si auto-consuma dietro la motivazione che la "vita è un dono", ma proprio per questo essendo un dono e non un prestito che ognuno dovrebbe avere il diritto di una scelta responsabile e sua.
"Proprio come sceglierò la mia nave quando mi accingerò ad un viaggio, o la mia casa quando intenderò prendere una residenza, così sceglierò la mia morte quando mi accingerò ad abbandonare la vita." (Seneca)
Mi sembra che sia questa una giusta indicazione e che ogni altra interpretazione sia figlia di sconvenienti ed egoistiche interpretazioni: il piangere i morti è un'emozione a volte perfino esibizionistica dove si soffre per sé stessi e non per chi ci ha lasciato; pensate sia insensibile per questo? No, è solo avere la consapevolezza che la morte non è solo la fine della vita, ma è una componente della vita stessa, è come la stazione di arrivo dopo un viaggio, un approdo dopo una burrasca.
Michelangelo sosteneva che il "suicidio era l'estremo tentativo di migliorare la propria vita" che avesse torto o ragione possiamo e forse dobbiamo discuterne.

Alberto
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