LIBRI CHE RIMARRANNO/44: ''Le ossa parlano'' di Antonio Manzini

Scritto in parallelo a "Vecchie conoscenze", uscito lo scorso maggio, l'ultimo romanzo di Antonio Manzini, "Le ossa parlano", Sellerio, pagg. 397, Euro 15,00, aveva bisogno, per confidenza dello stesso autore, di un po' di mesi di decantazione.

Può darsi che sia stata la concomitanza di ideazione ad averne condizionato un po' l'equilibrio, con il piatto della bilancia che qui pende più sull'intreccio del caso che sulla vita del protagonista, il romanissimo Rocco Schiavone assegnato vicequestore ad Aosta, occupato in realtà ad Ivrea per risolvere questo caso specifico.

Può darsi che sia stato il caso in sé stesso ad aver richiesto attenzione e rabbiosa delicatezza nelle parole e nell'acume delle indagini.

Perché il romanzo è una sorta di fiaba cattiva, che parte con il rinvenimento accidentale dello scheletro anonimo di un bambino, sepolto alla bell'e meglio in un bosco. Gli sforzi degli anatomopatologi, degli archeologi, dei botanici, per datarne la sepoltura e ricostruire i connotati fisici dei resti sono necessari ma non sufficienti, perché altro sforzo è richiesto a Schiavone e alla sua squadra, ed è l'immersione in quel fondo cupo di una fiaba nera, alla ricerca dell'orco.

Di fronte a un tema come questo anche la nemesi di Furio e Brizio nei confronti di Sebastiano deve placarsi, anche la voce delle storie del passato di Rocco, che tanto peso ha in tutti gli altri suoi libri, deve qui tacere un po', perché non c'è livello nella scala delle "rotture di coglioni" di Schiavone che possa tollerare un crimine del genere.

Rocco non è un supereroe e nulla può per difendere questa creatura ormai stroncata. Ma c'è una dignità della memoria da restituire a delle ossa senza nome, e un cadavere da restituire a una madre.

Lo scudo di Capitan America che non ha protetto il ragazzino diventa ora lo sforzo del vicequestore Schiavone, per amore della verità e per quell'odio inesprimibile che chiunque sia umano prova per atti disumani.

Capita sempre di più che i libri cosiddetti gialli degli ultimi anni virino verso un colore che solamente giallo non è. Sono sempre stato convinto, e ne ho parlato in tante mie pubblicazioni per la scuola, che la distinzione linneiana dei cataloghi serva più ai librai che ai lettori e che esistano tante e tali sfumature di giallo da rendere un po' posticcia questa etichetta. Se vale per i gialli cosiddetti classici, i "whodonit" all'inglese, non c'è dubbio che appaia riduttiva di fronte ad autori come Simenon, Greene, Eco, Cercas, Montalbán, il nostro Camilleri, Robecchi, Manzini.

Oggi il giallo sfugge alla riduttiva catalogazione di paraletteratura di evasione: è diventato qualcosa di diverso dalla semplice sfida tra autore-investigatore-lettore per la scoperta del colpevole, e i "casi" sono diventati "pretesti" per raccontare altro.
Quest'ultimo di Manzini, come del resto anche gli altri suoi più recenti, non è un giallo: è un romanzo in cui accade un delitto. È una cosa diversa. Poiché il delitto è quanto di più abbietto un essere umano possa compiere, dire che lo si legge per evasione è una sciocchezza.

Del giallo ha naturalmente i crismi, onestissimi: ogni indizio è palese anche al lettore, nessun colpo di scena accade senza che sia la conferma di una serie di dati infilati uno dopo l'altro in una catena perfettamente logica e perspicua sin dalle primissime pagine, "visibilissima" direi, e qui mi fermo per non spoilerare nulla!

Lo si legge in fretta, per una specie di sete di giustizia, anche solo confinata nelle pagine di un libro. E anche per disfarsene in fretta, perché l'aria che aleggia è di quelle che non fa bene respirare.

Lo si abbandona con più di una domanda, di natura esistenziale, e non sono di quelle che i vari Watson, Deruta, o D'Intino fanno ai loro capi: non c'è in Schiavone la soddisfazione di un disilluso Sherlock Holmes che ha risolto l'ennesimo caso. C'è la furia di chi di fronte a quel caso non avrebbe mai voluto trovarsi.

Mi chiedo se abbia senso recensire in questa rubrica uno di quei libri che per i più passeranno sotto la categoria di "bestseller" e che i vari social network hanno già rimbalzato con successo prima che si arrivi noi con questa rubrica a parlarne.
Lo dice anche Manzini, a pagina 249:
"I critici non li legge più nessuno"
"Motivo?"
"Nessuno ascolta i pareri delle persone colte. C'è Facebook per le opinioni, non lo sapevi?"

Ma la rubrica si intitola "Libri che rimarranno", non "Meteore che vendono tanto", e dei molti romanzi di Rocco Schiavone questo rimarrà, come riflessione critica sui mali del mondo, e sul modo di stare al mondo nonostante i mali del mondo.

Rubrica a cura di Stefano Motta
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