LIBRI CHE RIMARRANNO/43: ''Niente di vero'' di Veronica Raimo
"Tutte le famiglie banali si somigliano; ogni famiglia interessante è invece interessante a modo suo."
Il corpo che emerge da questo marmo sbozzato sembra essere il suo, messo a nudo da questa prosa impietosa e indagatrice. E allora uno si chiede perché. A cosa giova scrivere un libro che parli di sé stessi, senza raccontare nulla di eclatante: come in ogni diario di ogni persona che conduca una vita normale di relazioni, di viaggi, di lavoro, i giorni si susseguono con una certa prosaicità. Perché raccontarli?
In realtà ci ha messo sull'avviso sin dal titolo, di cui forse ci si è dimenticati non appena il ritmo incalzante della prosa ci ha ipnotizzato: "Niente di vero". Gli scrittori mentono: tutti. E quelli bravi ce lo dicono persino. Anche la Verika del libro si è costruita una nomea di artista - "è brava a disegnare" dice di lei la madre a chiunque debba presentarla - partendo da una bugia, da un paio di tavole di arte rubate a due compagni di scuola più grandi alle elementari. Cosa c'è di vero in queste pagine, allora?
Viene in mente uno dei grandi romanzi del Novecento, "La coscienza di Zeno", che è costruito su questo doppio gioco della menzogna: il dottor S., lo psicanalista del protagonista, decide di divulgare il diario del suo paziente avvertendo il lettore della doppiezza di questo Zeno Cosini, il quale dichiara a sua volta nella pagina d'apertura che ha deliberatamente mentito nello scrivere quelle pagine.
C'è un che di freudiano anche nelle parole di Verika, prosaicamente frenata dal complesso di Pinuccio, il nonno. Certo, "complesso di Edipo" o "complesso di Elettra" suonano più professionali, ma mica si può scegliersi il nome del nonno.
Potrà capitare ai lettori di aprire il web e cercare informazioni sui personaggi citati: ma questo fratello esiste davvero? E cosa ha pubblicato? E la madre? E l'amica Cecilia? Si può usare questo libro come il buco della serratura per sbirciare nella vita dell'autrice: è un gioco comprensibile ma inutile. O lo si può usare come uno specchio, per mettere a nudo sé stessi. E allora è spiazzante, e bellissimo.
"Niente di vero(nica)": molto di noi.
Potrei sintetizzare così, parafrasando uno degli incipit più belli di tutta la storia della letteratura, il nuovo libro di Veronica Raimo, "Niente di vero" (Einaudi, 2022, pagg. 163, Euro 18,00). Perché è la storia di una famiglia, la famiglia Raimo, il padre maniaco dell'igiene, urlator cortese, compulsivo costruttore di tramezzi di cartongesso; la madre ansiosa telefonista; il fratello maggiore Christian, assessore alla Cultura presso il III Municipio di Roma, scrittore come la sorella minore Veronica, detta Verika, o "Oca".
E perché è libro "incipitario", fatto di inizi fulminanti. "Quando in famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice" (p. 3); "Mio fratello muore tante volte al mese" (p. 5); "I momenti più profondi di solitudine li ho vissuti sulla tazza del cesso" (p. 34); "La maggior parte delle persone mi chiama semplicemente Vero, ma oltre a Verika, Oca, Scarafona e Smilzi sono stata: V., Veca, Sveka, Onica, Nicca, Nip, Straccetto, Capezzolina, Miss Frangetta e anche Troia" (pag. 39); "A volte mio fratello tradisce Dio con Freud" (p. 52); "Mia madre è convinta che io e mio fratello non siamo mai diventati scrittori di successo perché usiamo troppe parolacce" (p. 123). È un libro singhiozzante, che saltella in modo monologante per associazione di idee, con un certo sviluppo cronologico che non basta però a definirlo un romanzo. E uno sguardo interessante sulla realtà che lo rende più di un diario. Lo stile è corrusco, nervoso, beat: ci trovo Ginsberg, e Kerouac, ma anche De Carlo, senza l'eleganza leziosa della sua prosa musicale, però.
Lo stile della Raimo è duro ed efficace, privo di eufemismi. Si potrebbe definire sbrigativo e sciatto in alcuni usi diretti della lingua ("Il cazzo di zio Uccio non era stato il primo che avevo visto nella mia vita" pag. 72), molto "cosico" quando descrive le fatiche della peristalsi o le tecniche masturbatorie per riuscire a prendere sonno. Mi permetto di vederci più coraggio che sciatteria, più ricerca che pigrizia: il protagonista di un mio romanzo diceva una volta che scrivere non è pennellare un olio su tela, è scolpire. Assestare martellate, obbedire al marmo. Veronica Raimo ci sa fare, con la penna e col martello.Il corpo che emerge da questo marmo sbozzato sembra essere il suo, messo a nudo da questa prosa impietosa e indagatrice. E allora uno si chiede perché. A cosa giova scrivere un libro che parli di sé stessi, senza raccontare nulla di eclatante: come in ogni diario di ogni persona che conduca una vita normale di relazioni, di viaggi, di lavoro, i giorni si susseguono con una certa prosaicità. Perché raccontarli?
In realtà ci ha messo sull'avviso sin dal titolo, di cui forse ci si è dimenticati non appena il ritmo incalzante della prosa ci ha ipnotizzato: "Niente di vero". Gli scrittori mentono: tutti. E quelli bravi ce lo dicono persino. Anche la Verika del libro si è costruita una nomea di artista - "è brava a disegnare" dice di lei la madre a chiunque debba presentarla - partendo da una bugia, da un paio di tavole di arte rubate a due compagni di scuola più grandi alle elementari. Cosa c'è di vero in queste pagine, allora?
Viene in mente uno dei grandi romanzi del Novecento, "La coscienza di Zeno", che è costruito su questo doppio gioco della menzogna: il dottor S., lo psicanalista del protagonista, decide di divulgare il diario del suo paziente avvertendo il lettore della doppiezza di questo Zeno Cosini, il quale dichiara a sua volta nella pagina d'apertura che ha deliberatamente mentito nello scrivere quelle pagine.
C'è un che di freudiano anche nelle parole di Verika, prosaicamente frenata dal complesso di Pinuccio, il nonno. Certo, "complesso di Edipo" o "complesso di Elettra" suonano più professionali, ma mica si può scegliersi il nome del nonno.
Potrà capitare ai lettori di aprire il web e cercare informazioni sui personaggi citati: ma questo fratello esiste davvero? E cosa ha pubblicato? E la madre? E l'amica Cecilia? Si può usare questo libro come il buco della serratura per sbirciare nella vita dell'autrice: è un gioco comprensibile ma inutile. O lo si può usare come uno specchio, per mettere a nudo sé stessi. E allora è spiazzante, e bellissimo.
"Niente di vero(nica)": molto di noi.
Rubrica a cura di Stefano Motta