LIBRI CHE RIMARRANNO/41: ''Léon''  di Carlo Lucarelli

Occhieggia da settimane dalle vetrine delle librerie, perfettamente riconoscibile nel suo arancione squillante, l'ultimo romanzo di Carlo Lucarelli, Léon (Einaudi, 202 pp., Euro 17,50). Ti si insinua in testa, velenoso e serpeggiante come l'iguana che infila la zampa nella "o" del titolo leonino, come una specie di misterioso bestiario.
Come già "Almost Blue" suonata da Chet Baker, anche qui il titolo deriva da una canzone, l'omonima "Léon" dei Melancholia, che sono un gruppo che ha partecipato all'edizione 2020 di "X Factor". Lo dice lo stesso Lucarelli, nella nota di chiusura, e lo posso confermare anche io, con le debite proporzioni: ci sono storie che premono per uscire, e che per passare dalla testa alle dita sulla tastiera del pc hanno bisogno della musica giusta.

"Léon" è un romanzo di suoni, perché la chiave per risolvere il giallo su cui è costruito è esattamente la decifrazione di un suono, indistinto, apparentemente insignificante, che i sensi ridiventati acuti di Simone, il cieco che fu già di "Almost Blue", riescono finalmente a capire.
Di "Almost Blue" "Léon" è il seguito, necessario e terrificante. Tornano l'ispettrice Grazia Negro, che diviene qui madre di due gemelli che non sono però del suo Simone. E torna l'Iguana, il serial killer che in quel romanzo avevano insieme smascherato e catturato.
Ho letto questo romanzo appena uscito, prima di Natale, e solo ora mi sono liberato di quella sensazione di paura che mi era rimasta appiccicata addosso e mi impediva di scriverne come invece Lucarelli merita.
È sottile e pervasiva la paura che aleggia in queste pagine di Lucarelli, maggiore di quella di "Almost Blue" perché qui è spiazzante. "Ci sono troppi colpi di scena per poterlo riassumere", dice Lucarelli in un'intervista, e davvero si ha la sensazione di una storia sfuggente, viscida, sinuosa come l'iguana che campeggia in copertina. Quando si incomincia a intuirne i segreti e il dramma non ci si vorrebbe credere. Davvero. Si vorrebbe poter entrare nelle pagine, telefonare ai protagonisti ciechi tutti, non solo il cieco Simone, di fronte all'evidenza, urlare loro di stare attenti, di capire, di fuggire. Non sempre si fa in tempo e ci si sente quasi in colpa. L'intreccio da thriller è complicato ancor più dall'andirivieni di voci nelle pagine dei capitoli, nel passaggio da un narratore eterodiegetico a un narratore omodiegetico, con quell'effetto spiazzante e delirante, mantenuto con perfetta e perfida coerenza.
Perché come in ogni giallo che si rispetti non si può accusare l'autore di non averci messo tutti gli indizi ben chiari davanti agli occhi (e alle orecchie) sin da subito.
Ho usato due volte l'aggettivo "spiazzante" in queste mie righe, e dovrebbe bastare questo per dire senza dire. Che l'Iguana mi prenda se rivelo il finale di un libro giallo, a maggior ragione se è di Carlo!
Rubrica a cura di Stefano Motta
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