LIBRI CHE RIMARRANNO/39: ''Per niente al mondo'' di Ken Follett

Quando a novembre uscì il suo ultimo romanzo, "Per niente al mondo", in Italia edito da Mondadori (701 pagg., Euro 27), Ken Follett si lanciò in uno di quei paragoni arditi, che gli attirò contemporaneamente attenzioni e critiche. Dicendosi fermamente convinto che il successo di vendite sia indizio certo del valore artistico di un'opera, ha disquisito di letteratura citando, tra gli altri, Marcel Proust come esempio di scrittore ignorato dai suoi contemporanei e apprezzato poi col tempo. "Allora la gente non capiva cosa cercasse di fare - diceva Follett - ma dopo cent'anni si è capito che stava facendo qualcosa di speciale. Anche se in realtà lui non ti spezza il cuore, non fa ciò che io penso sia il punto fondamentale. Perché manca qualcosa: non eccita la tua comprensione. Io certamente ho qualcosa che lui non ha, non c'è storia in Proust: è la più lunga non-storia mai pubblicata. Puoi riassumere i sette volumi della "Recherche" in quindici secondi, perché non succede praticamente nulla". Eccezion fatta per "I pilastri della Terra", che ho molto amato (e per "Codice a zero", che conoscono in meno), ogni volta che leggo Ken Follett mi prende il complesso detto "di Giovanni Storti", che di fronte a una gamba di legno spacciata per capolavoro poiché firmata da un artista famoso sentenzia lapidario: "Il mio falegname con trentamila lire la fa meglio".
Mi chiedo se un editor di una grande casa editrice prenderebbe in considerazione un polpettone di 701 pagine, quale è l'ultimo di Follett, se sul frontespizio delle bozze comparisse il nome di un Carneade qualsiasi e non quello dell'ultimo bestsellerista vivente, morti Clive Cussler e Wilbur Smith.

Perché "Per niente al mondo" è un romanzo che non sta in piedi, verboso, dispersivo, tirato via, con protagonisti che sono "tipi" e non "personaggi": il tipo della donna presidente americana repubblicana ma femminista col marito che la tradisce e affiancata da un aitante consigliere uomo, naturalmente di colore per il politically correct, di cui altrettanto prevedibilmente si invaghisce; il tipo del perfetto funzionario di partito comunista cinese schiacciato; il tipo del delirante leader supremo nordcoreano; il tipo del dittatore centrafricano guerrafondaio; il tipo del capo della CIA di stanza in Ciad invidioso dei successi di una sua sottoposta, e via dicendo.
Nella trama si alternano, come nella più consueta ricetta dei moderni romanzi d'avventura, storie diverse, tutte tra loro contemporanee e si vorrebbe credere intrecciate. Alcune anche interessanti, se prese singolarmente. Ma è l'intreccio ad essere sfilacciato, a maglie troppo larghe, talora anche contraddittorio, come un arazzo sbrecciato e visto dal rovescio.
Si alza una spanna sopra le altre vicende quella della giovane ragazza che vive sulle rive dell'ormai prosciugato lago Ciad, vedova e sola col suo figlioletto, che intraprende il rischioso viaggio verso le coste libiche attraverso il mare di sabbia del Sahara, col miraggio di poter attraversare un altro mare, e sbarcare in Italia, per poi andare in Francia. Le angherie dei trafficanti di esseri umani e la tenerezza di questa madre indifesa avrebbero potuto reggere da sole un'intera storia, bella e struggente. A firma di un nome come Ken Follett sarebbe girata per centinaia di migliaia di mani, fregando i lettori che si aspettavano un thriller spionistico e colpendoli allo stomaco col racconto di queste ingiuste sofferenze.
E invece si impantana come una divagazione non necessaria nel profluvio di pagine su una Terza Guerra Mondiale che partirebbe dalle zone calde del Sudan e della Corea del Nord.
Se c'è del buono in questo romanzo, oltre all'onesto intrattenimento che è sempre un regalo prezioso, lo trovo in un fil rouge tematico che mi pare percorra almeno un paio delle storie che si snodano così artificiosamente: tanto nella vicenda ciadiana quanto in quella nordcoreana - che non dettaglio ulteriormente per non far arrabbiare nessun appassionato - assistiamo a una escalation di azioni e decisioni che paiono inevitabili ma che sono il frutto di un'iniziale piccolo problema non risolto o mal gestito. Succede spesso così anche nella nostra vita quotidiana, che qualsiasi problema gigantesco è figlio di una sciocchezza di due settimane prima. Si dovrebbe sperare che sullo scacchiere geopolitico ci siano meccanismi di prevenzione e risoluzione che evitino questo tipo di ingigantimenti iperbolici, eppure il romanzo di Follett smaschera l'infantilismo di chi gestisce le questioni globali con la stessa permalosità con cui agirebbe in una bega domestica.
Il vero pericolo per le sorti del mondo non sono le testate di plutonio montate su missili intercontinentali, allora, ma le teste di cazzo messe in posti di comando.
Leggersi si legge, questo ennesimo fluviale romanzo di Follett. E se volete un consiglio, nonostante non mi sia piaciuto, non vi dissuaderei dall'acquistarlo. Il problema è che poi lo si dimentica il giorno dopo, purtroppo.
Proust si legge forse più a fatica, amico Ken, ma non lo si dimentica più.
Rubrica a cura di Stefano Motta
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