LIBRI CHE RIMARRANNO/34: ''I fuochi dell’ira'' Wilbur Smith
Mio papà è sempre stato un po' in difficoltà quando doveva regalarmi dei libri, e lo capisco. Aveva grande stima e quasi soggezione per il figlio dell'operaio che faceva il classico e poi Lettere in università. Custodisce nella vetrina del mobile bello del salone la prima copia del mio primo libro, con il mio nome in copertina, e ne è ancora emozionato.
Si era fatto consigliare dal libraio, che è un amico e a distanza di anni me l'aveva confidato, quel Natale che voleva regalarmi un libro, e aveva comprato un romanzo di Wilbur Smith, "Quando vola il falco".
Da lì in poi, puntuale ad ogni Natale, perché il buon Wilbur sfornava romanzi a raffica che nemmeno Bruno Vespa o Andrea Vitali, il regalo di papà è un romanzo d'avventura dello scrittore sudafricano. Che spaziava dallo spionaggio all'antico Egitto, dagli oceani alle miniere di diamanti, dalle savane alle baraccopoli dove nasce la protesta anti-apartheid.
Smith viene spesso accostato a Clive Cussler e a Ken Follet nella triade immaginaria dei "maestri dell'avventura", e se è vero che se la giocano tra loro quanto al talento nello sfornare best-seller a ripetizione, va considerato che non sono esattamente sovrapponibili.
Chiedete agli addetti alle biblioteche quali scaffali si svuotano alla vigilia dell'estate e vi diranno: i loro tre. Sono le letture che ci accompagnano nei tempi lunghi, quando abbiamo bisogno di evasione e avventura.
C'è una ricetta astuta e sapiente per confezionare con arte questo tipo di narrazioni, e Wilbur Smith ne è stato il precursore e il più talentuoso testimone. Deve molto alla sua terra, l'Africa, e il Sudafrica in specie, come non ha mai mancato di ricordare in tutte le sue interviste.
Di Smith, che si è spento domenica a 88 anni a Città del Capo, è difficile individuare il libro migliore. Anche perché i palati fini alzeranno il sopracciglio dicendo che non è vera letteratura.
Anche perché ne ha scritti 49, di libri, tradotti in 30 lingue, venduti in 140 milioni di copie: non sarà Proust, cui Ken Follett recentemente ha voluto paragonarsi come migliore, ma è obbiettivamente difficile dargli dell'insignificante.
Si deve agli ottimi artigiani dell'intrattenimento come lui se tante persone hanno letto e continuano a leggere, e si appassionano a storie e mondi che forse mai nella vita potranno visitare di persona e che pure conoscono, intimamente, attraverso le emozioni delle pagine dei libri.
Se devo scegliere scelgo "I fuochi dell'ira", "Rage" nel titolo originale, cioè "Rabbia": è del 1987 e racconta la storia di due antagonisti sulla scena politica sudafricana, due fratellastri uniti poi dalla comune lotta contro l'apartheid e poi divisi, di nuovo, come se una condanna atavica ne dirigesse i destini. Sono 703 pagine di un romanzo fiume come pochi ormai se ne scrivono, dalle quali è difficile ricavare l'aforisma ad effetto, la citazione da sfoggiare in esergo ad altri libri. Mi piace questo passaggio però: "Ci sono gli eroi e ci sono anche i mostri, ma siamo quasi tutti comuni mortali, coinvolti in avvenimenti troppo feroci per noi. Forse alla fine di tutte queste lotte non erediteremo che le ceneri di una terra già bella". Trovo che valga per la lotta per i diritti dei neri come per tutte le altre lotte che ogni giorno ognuno di noi combatte. Avere avuto qualcuno che ne sapesse parlare ha aggiunto epicità agli eventi senza togliere sincerità agli ideali.
"Non scrivere mai per piacere al pubblico, ma per piacere a te", diceva Wilbur Smith, e potrebbe sembrare la sentenza spocchiosa di una star alla fine di una carriera gloriosa. E invece è vero, ed è ciò che ha permesso a Wilbur Smith (non mi riesce di nominarlo solo col cognome, "Smith", che mi pare troppo anonimo, una specie di "signor Rossi") di piacere così tanto.
Si era fatto consigliare dal libraio, che è un amico e a distanza di anni me l'aveva confidato, quel Natale che voleva regalarmi un libro, e aveva comprato un romanzo di Wilbur Smith, "Quando vola il falco".
Da lì in poi, puntuale ad ogni Natale, perché il buon Wilbur sfornava romanzi a raffica che nemmeno Bruno Vespa o Andrea Vitali, il regalo di papà è un romanzo d'avventura dello scrittore sudafricano. Che spaziava dallo spionaggio all'antico Egitto, dagli oceani alle miniere di diamanti, dalle savane alle baraccopoli dove nasce la protesta anti-apartheid.
Smith viene spesso accostato a Clive Cussler e a Ken Follet nella triade immaginaria dei "maestri dell'avventura", e se è vero che se la giocano tra loro quanto al talento nello sfornare best-seller a ripetizione, va considerato che non sono esattamente sovrapponibili.
Chiedete agli addetti alle biblioteche quali scaffali si svuotano alla vigilia dell'estate e vi diranno: i loro tre. Sono le letture che ci accompagnano nei tempi lunghi, quando abbiamo bisogno di evasione e avventura.
C'è una ricetta astuta e sapiente per confezionare con arte questo tipo di narrazioni, e Wilbur Smith ne è stato il precursore e il più talentuoso testimone. Deve molto alla sua terra, l'Africa, e il Sudafrica in specie, come non ha mai mancato di ricordare in tutte le sue interviste.
Di Smith, che si è spento domenica a 88 anni a Città del Capo, è difficile individuare il libro migliore. Anche perché i palati fini alzeranno il sopracciglio dicendo che non è vera letteratura.
Anche perché ne ha scritti 49, di libri, tradotti in 30 lingue, venduti in 140 milioni di copie: non sarà Proust, cui Ken Follett recentemente ha voluto paragonarsi come migliore, ma è obbiettivamente difficile dargli dell'insignificante.
Si deve agli ottimi artigiani dell'intrattenimento come lui se tante persone hanno letto e continuano a leggere, e si appassionano a storie e mondi che forse mai nella vita potranno visitare di persona e che pure conoscono, intimamente, attraverso le emozioni delle pagine dei libri.
Se devo scegliere scelgo "I fuochi dell'ira", "Rage" nel titolo originale, cioè "Rabbia": è del 1987 e racconta la storia di due antagonisti sulla scena politica sudafricana, due fratellastri uniti poi dalla comune lotta contro l'apartheid e poi divisi, di nuovo, come se una condanna atavica ne dirigesse i destini. Sono 703 pagine di un romanzo fiume come pochi ormai se ne scrivono, dalle quali è difficile ricavare l'aforisma ad effetto, la citazione da sfoggiare in esergo ad altri libri. Mi piace questo passaggio però: "Ci sono gli eroi e ci sono anche i mostri, ma siamo quasi tutti comuni mortali, coinvolti in avvenimenti troppo feroci per noi. Forse alla fine di tutte queste lotte non erediteremo che le ceneri di una terra già bella". Trovo che valga per la lotta per i diritti dei neri come per tutte le altre lotte che ogni giorno ognuno di noi combatte. Avere avuto qualcuno che ne sapesse parlare ha aggiunto epicità agli eventi senza togliere sincerità agli ideali.
"Non scrivere mai per piacere al pubblico, ma per piacere a te", diceva Wilbur Smith, e potrebbe sembrare la sentenza spocchiosa di una star alla fine di una carriera gloriosa. E invece è vero, ed è ciò che ha permesso a Wilbur Smith (non mi riesce di nominarlo solo col cognome, "Smith", che mi pare troppo anonimo, una specie di "signor Rossi") di piacere così tanto.
Rubrica a cura di Stefano Motta