LIBRI CHE RIMARRANNO/33: ''Il rogo della Repubblica'' di Andrea Molesini

Che i comunisti mangiassero i bambini è risaputo. Così come che gli Ebrei uccidessero i bambini cristiani per cavarne il sangue e impastare con esso le focaccine da consumare durante la Pasqua.
Lo sanno tutti. Tutti quelli che non sanno che se c'è un popolo che ha orrore del sangue dal punto di vista alimentare è esattamente il popolo semita, e tutti quelli che non si chiedono la ragione, e nemmeno il modo: si ubriacano delle accuse che gli fanno più comodo, e le assumono tal quali.
Sono gli stessi bambini del romanzo di Andrea Molesini, "Il rogo della Repubblica" (Sellerio 2021, pp. 334, Euro 15) a farsi le domande giuste, quelle che gli adulti non riescono a formulare, mentre ammirano un quadro del Giambellino: "La Madonna è ebrea?"
"Non bestemmiare! La Vergine è santa!", lo rimprovera la madre segnandosi la croce su fronte labbra e petto con il pollice.
"Ma perché un'ebrea non può anche essere santa?", riprende il bambino.
"Certo che è ebrea [...]. Ebreo è anche il bambino tutto fasciato, Gesù; e quel signore sullo sfondo che ci fissa sbigottito è San Giuseppe, ebreo anche lui..."
"Allora perché Veronica dice che gli Ebrei sono cattivi se anche la Madonna Gesù e San Giuseppe sono ebrei?"
"Perché hanno ucciso Gesù", sbotta la serva squadrandolo con un viso severo.
"Ma gli ebrei sono tanti... Come fanno ad aver tutti ucciso Gesù?"

Ogni anno, da ormai molti, ho il privilegio di intervistare i finalisti del Premio Manzoni, e lo scorso sabato, introducendo il romanzo di Molesini, insieme a "Italiana" di Catozzela - che poi ha vinto il Premio -e al romanzo di Martina Merletti che ho entrambi già recensito su queste nostre pagine, leggevo esattamente questo passo, per recuperare dalla voce pura e sfacciata dei bambini la disarmante domanda che percorre l'intera storia dell'umanità, dalle prime persecuzioni dei tempi antichi alla Shoah, e forse anche oltre.
Avevo bisogno di una voce innocente per introdurre un romanzo bellissimo ma straziante, dove il Male ignorante si mischia con la Ragion di Stato, quella sì molto intelligente, e produce un abominio umano e legislativo.
Sembra di aver già sentito un riassunto simile: è la "Storia della Colonna Infame" di Manzoni. E il romanzo di Molesini è per molti versi il suo omologo, ambientato a Venezia nel 1480, con la stessa tensione di un legal thriller e il medesimo sconcerto di un dramma esistenziale, non solo procedurale.
Nel 1480, in un piccolo paese del trevigiano, sparisce un bambino. L'archisinagogo Servadio e altri due ebrei vengono accusati di averlo ucciso per impastare col suo sangue le focaccine pasquali. Torturati e condannati a morte, fanno ricorso e il processo si trasferisce di fronte al Senato di Venezia.
Che siano innocenti lo capiscono tutti. Che debbano essere assolti non ne sono tutti convinti. Perché significherebbe condannare per falsa testimonianza almeno cinquecento tra gli abitanti del paesino, podestà compreso; perché i francescani, soprattutto Bernardino da Feltre - scellerato e incendiario predicatore (faccio notare che per la Chiesa costui è ancora "beato") - aizza le folle; perché cane non mangia cane. L'esito non unanime della votazione con cui il Senato li manda comunque a morte è indice di una situazione non lineare.
In mezzo a queste manovre politiche si muove Boris da Candia, "esploratore" per conto della Repubblica, indagatore per curiosità personale, un uomo, come tutti i saggi, che ha più domande che risposte.
Una figura di cui mi sono subito innamorato: una specie di Christopher Marlowe trasportato dai moli londinesi alle calli veneziane: umanista, bibliofilo, traduttore di Tacito, eppure avventuriero, omicida efficacissimo, cultore del buon cibo e delle belle donne, frequentatore di osterie e bordelli, quello di Sora Bigotta il più sopraffino, una sorta di James Bond elegante e letale, al servizio segreto della Repubblica ma non così ottuso da non farsi delle domande.
I dialoghi tra Boris e due degli ebrei imprigionati a Venezia, il Servadio e soprattutto Giacobbe Barbato, sono le pagine più struggenti del romanzo. I sogni agitati che lo tormentano talora sono sogni di navigazione, di burrasche, di naufragi, come se l'acqua degli incubi potesse spegnere il fuoco di quel rogo che inevitabilmente sa verrà acceso in piazza per bruciare i condannati. Pare ovvio che un veneziano popoli di mare i suoi sogni. Pare meno scontato quando in questi stessi sogni vi si legge in filigrana il ventiseiesimo dell'Inferno, e allora Boris diventa un Ulisse ugualmente fiero e mai domo, come dirà anche Tennyson.
So di qualcuno che ha faticato a terminare la lettura del romanzo, per uno stile corrusco o forse per quella sensazione di malvagità stolta e inesorabile che si infila sotto la pelle leggendo di questo processo.
"Questa notte un uomo mi ha ucciso con la sua bontà", confessa ad un certo punto Boris.
E questa bontà non si cancella con un rogo.

Rubrica a Stefano Motta
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