La Valletta, padre Giorgio Ghezzi si racconta: «Dobbiamo essere una Chiesa 'in uscita'»

"Se uno di noi, uno qualsiasi di noi esseri umani sta in questo momento soffrendo come un cane, è malato o ha fame, è cosa che ci riguarda tutti, perché ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi". Gino Strada - fondatore di Emergency venuto a mancare qualche giorno fa - aveva fatto dell'aiutare il prossimo un modello di vita, e così come lui sono molte le persone che hanno deciso di accogliere questo insegnamento e dedicarsi agli ultimi. Tra loro c'è sicuramente padre Giorgio Ghezzi, originario di La Valletta Brianza, che opera da anni insieme alle comunità di migranti. Nativo dell'allora frazione di Perego Bernaga, padre Giorgio - classe 1969 - è entrato in seminario a soli 11 anni, lasciando non senza un po' di tristezza la sua amata Brianza per trasferirsi a Ponteranica, in provincia di Bergamo, dove ad accoglierlo ha trovato la comunità religiosa dei Sacramentini, nella Congregazione del Santissimo Sacramento.


Padre Giorgio Ghezzi


Dopo gli studi classici e di teologia, è stato ordinato sacerdote il 30 settembre del 1995, a Cortemaggiore (Piacenza). Divenuto prete, padre Giorgio ha fin da subito reso concreta quella spinta che lo portava a volersi dedicare al prossimo: "Sono sempre stato convinto del fatto che un cristiano non è tale se non è, allo stesso tempo, missionario: questo significa, secondo l'espressione usata da papa Francesco, che siamo chiamati ad essere una Chiesa 'in uscita'" ha raccontato con convinzione, descrivendo le tappe principali della sua esperienza: innanzitutto, i sette anni  da viceparroco in un oratorio a Milano, con le estati del 2003 e del 2005 trascorse in Senegal, con due gruppi giovanili. "Mi sono poi spostato a Caserta, dove ho trascorso ben 14 anni come assistente spirituale, scout e collaboratore nella pastorale dei migranti" ha proseguito. Oggi, padre Giorgio opera a Modugno, in provincia di Bari, sempre in una comunità di rifugiati.


Ripensando all'anno e mezzo appena trascorso, descrive come 'terribile' il lungo anno della pandemia: "Molti immigrati richiedenti asilo sono rimasti bloccati all'interno delle strutture di accoglienza, come del resto è accaduto a noi nelle nostre case. È venuta così a mancare la vicinanza, il rapporto personale e tutte le dinamiche messe in atto per aiutarli nell'integrazione.  Il contatto umano è fondamentale perché crea la fiducia con i fratelli stranieri; questo è stato per me un tempo duro da sopportare e una prova di resistenza faticosa". Fortunatamente, oggi tutto è tornato alla normalità, ed è proprio in vista di questa possibilità che padre Giorgio prosegue: "C'è bisogno, più che mai, che i cristiani 'si sporchino le mani' sulle strade del mondo, che stiano a contatto con le vicende quotidiane, spesso drammatiche, di tante donne e uomini. Per questo motivo ho maturato negli anni la consapevolezza di un impegno costante accanto alle sorelle e ai fratelli migranti e rifugiati. La dimensione dell'accoglienza verso gli stranieri è nel cuore stesso della Bibbia e specialmente del Vangelo" spiega il sacerdote, cercando di esprimere a parole il senso più profondo del suo operato. Pensando all'attualità, commenta: "Se oggi molti cristiani seguono più gli slogan di qualche politico anziché rifarsi alle parole e alla vita di Gesù, forse come chiesa dobbiamo farci un forte esame di coscienza".



Insieme agli scout, a Barbiana




Padre Giorgio insieme ad un gruppo di migranti a Castel Volturno

Per il missionario non è dunque più il tempo (e forse non lo è mai stato) per testimoniare la fede in Gesù di Nazareth esclusivamente all'interno delle chiese, attraverso una vita incentrata sulla catechesi e sui sacramenti. Rivolgendosi ai giovani che si ritrovano ad interrogarsi sul loro futuro, offre un invito: "Innanzitutto abbiate il coraggio di ascoltare il vostro cuore in profondità, diventando ogni giorno sempre più consapevoli della vostra interiorità; e poi, provate ad uscire da voi stessi e dalle vostre cose, provate a decentrarvi; avvicinatevi alle realtà di bisogno che abitano anche il vostro quartiere, i luoghi di studio e lavoro, e immedesimatevi nelle esperienze di esclusione e di margine che molti vostri coetanei vivono: provate,cioè, a giocare la vostra esistenza nella logica del dono. Trattenere la propria vita per sè, alla lunga, significa perderla. Perdersi dentro le vicende complesse degli altri significa, invece, costruire , giorno per giorno, una vita autentica e realizzata, felice".
G.Co.
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