LIBRI CHE RIMARRANNO/28: ''La Malaluna'' di Maurizio Mattiuzza
Quando tengo i corsi di formazione ai docenti dico sempre loro: mi raccomando, imparate gli incipit dei romanzi, delle poesie, dei saggi. E citateli passeggiando per l’aula con le mani in tasca. A un certo punto i vostri studenti vi diranno di smettere, ammirati, e persuasi che potreste continuare fino alla fine del libro. È un trucco da quattro soldi, e per questo lo mescolo tra una battuta e un caffè durante le pause alla macchinetta, non lo enuncio dal pulpito del formatore. Ma funziona.
Leggo, per lavoro e per passione, moltissimi libri ogni anno, molti in contemporanea, molti mi arrivano direttamente dalle case editrici, o dagli amici che mi onorano di un omaggio dei loro lavori. Confesso di non leggerli tutti tutti dalla prima all’ultima pagina. Tranne quelli degli amici, che non deludono mai. Di altri rimango folgorato, o deluso, dopo il primo, secondo capitolo.
So che è un errore leggere in questo modo, perché ci sono autori geniali e scontrosi che apposta ti fanno inciampare nelle prime pagine. Diceva Umberto Eco che aveva volutamente reso ardue le prime pagine del “Nome della rosa” perché solo chi le avesse superate avrebbe meritato la grandezza dell’intero romanzo.
Così è anche in montagna: sovente le vie di arrampicata partono subito dure, strapiombanti, perché un principiante non si trovi a metà incrodato senza poter né scendere né salire, ma si misuri subito con la levatura del percorso.
Rivendico il diritto, enunciato da Pennac, di abbandonare un libro, di non leggerlo fino alla fine. La lettura assomiglia più al cioccolato che a una medicina: è un piacere. Se non è buona, che piacere è?
Rivendico il diritto a recensire un libro prima di averlo finito.
Capita così nella vita, che le persone le conosci di pancia, d’istinto, e di solito la prima impressione non si rivela ingannevole quando l’amicizia si approfondisce.
Ho perciò per le mani un romanzo che so sarà molto bello. Per l’esperienza che il mio lavoro mi ha insegnato e per il mio istinto sento che sarà così. Lo sto centellinando, leggendo adagio: vorrei che non finisse troppo presto.
Vorrei consigliarvelo proprio attraverso le parole del suo incipit:
“A raccontarla per come è andata ci sarebbe da rimanere alzati una notte intera, ma dalle nostre parti questo non si fa. Cominciò tutto dentro un giorno caldo, proprio lì, a un tiro di afa dal bosco. Un’alba di quelle che capitano in mezza montagna, quando la luce sembra nata apposta per impastarsi con l’umido della pianura e si suda perfino a bestemmiare. E da bestemmiare, in quei giorni degli anni Quaranta, ce n’era. Eccome se ce n’era. Ovunque ti voltassi non sapevi più quale santo pregare. Tirava un’aria densa, sporca, come quando in strada passa un camion a corto d’olio.”
Si intitola “La Malaluna”, è scritto da Maurizio Mattiuzza e pubblicato da Solferino. Racconta di una famiglia friulana di lingua slovena: un padre soldato e una donna minuta ma forte come mille uomini, che la Grande Guerra sradica dalla loro terra, dopo Caporetto, e che il Fascismo di confine mantiene in un costante clima di paura e incertezza, di misteri, odi etnici e vendette trasversali mai sazie.
La prima di copertina la definisce una saga di “vinti”, e in quell’aggettivo così marchiato nella critica letteraria io ritrovo esattamente quegli artifici di regressione tipici di Verga, l’erlebte Rede, la focalizzazione zero che non è solo il mimetizzarsi dello scrittore dietro ai personaggi ma la condanna di un popolo di confine costretto sempre a mimetizzarsi, quando non può combattere, senza però mai arrendersi.
Inutilità della guerra, tragedia dei profughi, stupidità del fascismo. E uno stile corrusco, che sto invidiando tantissimo.
Leggo, per lavoro e per passione, moltissimi libri ogni anno, molti in contemporanea, molti mi arrivano direttamente dalle case editrici, o dagli amici che mi onorano di un omaggio dei loro lavori. Confesso di non leggerli tutti tutti dalla prima all’ultima pagina. Tranne quelli degli amici, che non deludono mai. Di altri rimango folgorato, o deluso, dopo il primo, secondo capitolo.
So che è un errore leggere in questo modo, perché ci sono autori geniali e scontrosi che apposta ti fanno inciampare nelle prime pagine. Diceva Umberto Eco che aveva volutamente reso ardue le prime pagine del “Nome della rosa” perché solo chi le avesse superate avrebbe meritato la grandezza dell’intero romanzo.
Così è anche in montagna: sovente le vie di arrampicata partono subito dure, strapiombanti, perché un principiante non si trovi a metà incrodato senza poter né scendere né salire, ma si misuri subito con la levatura del percorso.
Rivendico il diritto, enunciato da Pennac, di abbandonare un libro, di non leggerlo fino alla fine. La lettura assomiglia più al cioccolato che a una medicina: è un piacere. Se non è buona, che piacere è?
Rivendico il diritto a recensire un libro prima di averlo finito.
Capita così nella vita, che le persone le conosci di pancia, d’istinto, e di solito la prima impressione non si rivela ingannevole quando l’amicizia si approfondisce.
Ho perciò per le mani un romanzo che so sarà molto bello. Per l’esperienza che il mio lavoro mi ha insegnato e per il mio istinto sento che sarà così. Lo sto centellinando, leggendo adagio: vorrei che non finisse troppo presto.
Vorrei consigliarvelo proprio attraverso le parole del suo incipit:
“A raccontarla per come è andata ci sarebbe da rimanere alzati una notte intera, ma dalle nostre parti questo non si fa. Cominciò tutto dentro un giorno caldo, proprio lì, a un tiro di afa dal bosco. Un’alba di quelle che capitano in mezza montagna, quando la luce sembra nata apposta per impastarsi con l’umido della pianura e si suda perfino a bestemmiare. E da bestemmiare, in quei giorni degli anni Quaranta, ce n’era. Eccome se ce n’era. Ovunque ti voltassi non sapevi più quale santo pregare. Tirava un’aria densa, sporca, come quando in strada passa un camion a corto d’olio.”
Si intitola “La Malaluna”, è scritto da Maurizio Mattiuzza e pubblicato da Solferino. Racconta di una famiglia friulana di lingua slovena: un padre soldato e una donna minuta ma forte come mille uomini, che la Grande Guerra sradica dalla loro terra, dopo Caporetto, e che il Fascismo di confine mantiene in un costante clima di paura e incertezza, di misteri, odi etnici e vendette trasversali mai sazie.
La prima di copertina la definisce una saga di “vinti”, e in quell’aggettivo così marchiato nella critica letteraria io ritrovo esattamente quegli artifici di regressione tipici di Verga, l’erlebte Rede, la focalizzazione zero che non è solo il mimetizzarsi dello scrittore dietro ai personaggi ma la condanna di un popolo di confine costretto sempre a mimetizzarsi, quando non può combattere, senza però mai arrendersi.
Inutilità della guerra, tragedia dei profughi, stupidità del fascismo. E uno stile corrusco, che sto invidiando tantissimo.
Stefano Motta