Morte di un primario:  'In memoriam' di Giuseppe De Donno

Il dottor Giuseppe De Donno
Quando muore una persona alla quale siamo legati avvertiamo che una parte di noi – quella legata a quella persona – se ne va. Non possiamo far esperienza personale della morte ma solo indirettamente , di quella dell’altro, la cui perdita rende impossibile la relazione, almeno per come la intendevamo prima. Anche quando muore una persona alla quale non siamo legati in modo personale ( non un parente, non un amico) ma che ha fatto parte di un periodo della storia collettiva che ci ha riguardato da vicino , ne restiamo colpiti e sorpresi e particolarmente se sappiamo che quella persona si è messa in gioco in quella particolare fase storica. Se poi quella morte è giunta anticipatamente per volontà di quella persona, proviamo sentimenti di angosciosa incredulità: è ciò che ho provato, con molta tristezza.
Di fronte al mistero della morte voluta anticipatamente possiamo solo tacere per rispetto di quella persona e perché in ogni caso non sapremo mai che cosa l’ha veramente determinata: rimane un absurdum , la cui origine prima e incondizionata rimane un segreto della persona singola , di cui possiamo solamente cercare di ricostruire e mettere insieme alcune circostanze che l’hanno resa possibile, le cui ragioni ultime restano insondabili all’individuo stesso: se ne colgono le “ cause” e le concause , i fattori precipitanti e scatenanti (Camus scrisse che “ bisognerebbe sapere se, quello stesso giorno, un amico non gli abbia parlato in modo indifferente …. Il suo atteggiamento può bastare a far precipitare tutti i rancori e la stanchezza ancora in sospensione” . ) ma , i meccanismi e la dinamica ma la ragione ultima trascende l’individuo e chi gli sta accanto. Questo silenzio , tuttavia, non ci esime di render giustizia, per quanto nelle nostre possibilità, alla verità di quella persona. Ho conosciuto, per mio desiderio, il dottor De Donno verso la fine del maggio 2020, quando ormai gli ultimi tizzoni della prima ondata della pandemia si spegnevano. Telefonai alla segreteria della pneumologia di Mantova esplicitando il mio desiderio di incontrarlo e mi fu dato appuntamento per un sabato mattina. Volevo saper qualche cosa di prima mano sulla terapia del Covid con siero immune. Capii subito con quale convinzione si era impegnato in quella terapia, dimostratasi efficace e risolutiva nei pazienti che aveva trattato , più di cinquanta, ma anche mi accorsi in diretta, dai suoi racconti e per una conversazione telefonica intercorsa mentre ero presente, di quanto si trovasse in difficoltà con quella esperienza terapeutica portata avanti in collaborazione col policlinico di Pavia. Un autorevole virologo, spesso presente alle trasmissioni dirette da Fabio Fazio, aveva affermato, con molta boria, che la terapia con plasma iperimmune era costosa ( ??!) … Il dottor De Donno mi disse che assieme al suo staff aveva quantificato il costo, per un totale di 81- 82 euro a trattamento … se questa è una terapia costosa … ma di che cosa si andava cianciando ? Sarebbe costosa una terapia di 80 euro rivelatasi risolutiva per decine e decine di pazienti , nell’esperienza di poche settimane , riservata a pazienti affetti da insufficienza respiratoria grave? Ma che cosa si cercava di insinuare? Non poteva poi mancare la riserva al plasma iperimmune per i potenziali rischi all’infusione di plasma in quanto tale. Non è questa la sede per una dettagliata disamina: faccio solo notare che il plasma iperimmune ( già stato usato per l’infezione da Ebola) in quella fase della pandemia è stato impiegato dal gruppo di Mantova solo per malati gravi ( e non si sono verificati eventi avversi) e che non esistevano farmaci in grado di far uscire rapidamente i pazienti dalla insufficienza respiratoria. Tutto ciò che è stato appreso sui farmaci è stato possibile con valutazioni retrospettive e con studi osservazionali: impossibile eseguire sperimentazioni in cui un famaco viene testato contro un altro ( ad un gruppo di pazienti viene assegnato un farmaco diverso da quello assegnato ad un altro gruppo) e solo l’osservazione retrospettiva nelle prime settimane della pandemia ha permesso di stabilire che l’uso di eparina sottocute era una terapia raccomandata a tutti i pazienti, non così l’uso degli antivirali mentre il momento giusto per somministrare il cortisone è cambiato fra la prima ondata e la terza. Tutto ciò a dire che boicottare sul nascere l’uso del plasma iperimmune era come uccidere un neonato in fasce… Agli altri trattamenti è stato dato molto più tempo per decidere quale era utile e in quale momento dell’infezione era corretto usarlo…
Tornando al mio incontro col dottor De Donno ricordo anche che approfittai anche della sua cordialità per chiedergli consigli per una anziana signora che avevo fatto ricoverare per infezione da Covid : seppur non aveva sviluppato una grave insufficienza respiratoria non era ancora stata considerata dimissibile dopo due mesi di ricovero. Nei giorni seguenti gli trasmisi i saluti dei suoi colleghi pneumologi dell’INRCA, che lo ricordavano con stima e per la particolare integrazione della pneumologia di Mantova col territorio (la medicina di territorio è il tallone di Achille della Lombardia e riconoscere che in una provincia invece un suo settore è ben rappresentato è sicuramente un elemento di grande pregio: merito del dottor De Donno, che aveva diretta la SS di Assistenza Respiratoria Domiciliare per vent’anni e che durante la pandemia era stata la loro salvezza). Ne ebbe molto piacere , me ne accorsi per quel poco che lo avevo conosciuto: una persona sì cordiale e molto disponibile, ma tendenzialmente schiva e non alla ricerca di lusinghe. Gli chiesi infine, pensando ad una seconda ondata, se il suo ospedale aveva delle scorte di plasma iperimmune da dare ad altri ospedali e mi rispose affermativamente ( e in buon numero!) Alle avvisaglie della seconda ondata ricontattai il dottor De Donno per chieder il suo giudizio personale sugli antivirali, considerato che nella prima fase della pandemia , ne erano stati usati diversi e spesso nello stesso paziente. Mi confermò che l’unico con una certa efficacia provata era il Rendesivir e aggiunse “ speriamo negli anticorpi monoclonali” ( li stiamo ancora aspettando) e – ahimè – che del plasma aveva deciso di non parlarne più , “ troppa speculazione sui morti”. A questo proposito spero che in un modo o nell’altro non si speculi anche sulla sua morte: ho detto all’inizio che di fronte ad una morte come questa è bene tacere . Le diverse supposizioni che si cercano non possono dar conto del mistero ultimo e insondabile che la circonda ed è buona cosa non violarlo. Credo che il modo più decente di accostarsi alla sua morte sia quello di riconoscere come quella solitudine da numeri primi – che a volte si paga duramente – che in qualche modo lo ha caratterizzato, sia stata l’altra faccia di un’operosità tenace di un “ medico di campagna” – come il dottor De Donno diceva di sé stesso – che non guardava in faccia a nessuno, se non ai soli che dovessero esser guardati ( i pazienti!), senza proclami mentre oggi, più che mai in tempo di Covid, chi insulta e urla (non solo nelle piazze), senza sapere quello che dice, di certo non sa cosa significa rimboccarsi le maniche senza risparmiarsi. Tanto gli dovevo: la sua morte non è stata per me quella di uno sconosciuto ma di un uomo che ho avuto modo di poter incontrare e che per me, personalmente, ha avuto significato. Mai avrei pensato, quel sabato mattina che non lo avrei più rivisto.
Dottor Luca Melchiorre - Ospedale di Merate
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