Merate: dopo 60 anni la croce della GIGIA torna in città nel giardino parrocchiale. La storia di un gruppo di 'incoscienti'

Era il 12 giugno 1960 quando 12 amici partiti da Merate, a cui se ne unirono altri durante il tragitto, portarono una croce alta 3 metri e con braccio orizzontale di 1,40 in cima al monte Groppera, a 2948 metri di altitudine. Oggi dopo sessant'anni quella stessa croce è tornata a Merate e si trova nel giardino della parrocchia completamente rinnovato a seguito dei lavori di sistemazione.

Un ritorno inaspettato, carico di significato e di emozioni e che per coloro che sono rimasti a ricordare quei giorni con don Peppino Fumagalli in cima alla vetta, è motivo ancora di qualche lacrima.



Il gruppo in cima alla vetta dopo aver eretto la croce il 12 giugno 1960

A Campodolcino la sezione delle ACLI lecchese aveva una baita a disposizione degli affiliati tra cui anche i meratesi. Tanti erano coloro che, negli anni Cinquanta/Sessanta, trascorrevano le vacanze in compagnia, senza spendere troppo e fedeli agli ideali cattolici. Si facevano gite e scampagnate tra i boschi e sulle vette circostanti, si pranzava al sacco, si tornava a “casa” stanchi ma contenti e dopo la cena frugale tutti assieme, si recitava il rosario prima di andare a letto per prepararsi a un nuovo giorno.
Un po' quello che accadde, come ricorda Gianni Comi, nell'estate del 1959.
La giornata era brutta e non c'era altra alternativa che rimanere al coperto fino a quando, nel pomeriggio, un raggio di sole fu sufficiente per far decidere in una manciata di minuti di approfittare delle ore rimaste per una escursione.
Partiti con il solito carico di entusiasmo e, a posteriori anche di “leggerezza”, i giovani arrivarono sulla vetta del pizzo Groppera attorno alle 17. Tutto sembrava volgere per il meglio quando in dieci minuti la cima “mise il cappello” e si scatenò il diluvio.



La cima del Groppera ricoperta di neve

“Non si vedeva più nulla” ha ricordato Gianni Comi “il cielo si era completamente coperto e solo a valle c'era un po' di chiarore. Pioveva fortissimo e noi non eravamo attrezzati, eravamo usciti come degli sprovveduti, con vestiti leggeri e sandali. Non sapevamo cosa fare fino a quando abbiamo scorto a valle il laghetto nei pressi della capanna Chiavenna. Era un luogo che conoscevamo, dalla parte opposta della nostra casa ma era un punto di riferimento. Allora ci siamo fatti coraggio, c'erano con noi anche delle ragazze, e siamo scesi seguendo l'acqua che scorreva nel canalone verso il lago. Avevamo i piedi immersi in un fiume di fango e acqua. Con grande fatica riuscimmo ad arrivare a destinazione e il rifugista vedendoci stremati ci diede della grappa per rifocillarci. Quando ci siamo guardati alle spalle e abbiamo visto la vetta coperta dal temporale e il rischio che abbiamo corso, arrivando invece sani e salvi, ci siamo resi conto che qualcuno ci aveva protetto e si era compiuto una sorta di miracolo. Nessuno si era slogato nemmeno una caviglia”.



Don Peppino mentre celebra la Messa

Da qui la decisione che quell'avventura andava ricordata e soprattutto bisognava farlo con un segno di gratitudine per quella “mano” che dall'alto li aveva protetti.
“Abbiamo iniziato a costruire una croce nelle cantina di due ragazzi del posto e poi l'abbiamo portata a saldare a Merate. Nel giugno 1960 era finita e siamo saliti in vetta: c'era chi portava un braccio della croce, chi l'acqua, chi il cemento e gli attrezzi per poi poter fare il basamento. Da Merate eravamo partiti in 12 e con noi c'era don Peppino Fumagalli arrivato da poco e che era entusiasta dell'idea. Quando arrivammo in vetta c'era un metro e mezzo di neve da spalare per trovare la roccia dove erigere il simulacro. Quando finalmente fu pronta, celebrammo la Messa. Fu un momento emozionante, con le note del violino di Pierpaolo Arlati”.

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Quel giorno da Merate erano partiti don Giuseppe Fumagalli, Giuseppe Bonanomi, Leonida Villa, Benigno Villa, Pier Paolo Arlati, Alberto Arlati, Gianni Comi, Lino Comi, Ambrogio Comi, Gian Andrea Cacciatori, Giovanni Battista Albani.



I lavori di manutenzione della croce nel corso degli anni

Negli anni la tappa alla croce recante la targa della GIGIA (Gruppo Italiano Giovani Intrepidi Alpinisti) a memoria di quella avventura fortunata e rocambolesca, era anche il momento per riverniciarne le travi. Esposta alle intemperie, in un punto per nulla protetto pian piano aveva iniziato a rovinarsi e portare evidenti i segni del tempo.



La posa della nuova croce nel 2001

“Era venuto il momento di sostituirla e così, strano gioco del destino, uno dei fratelli di Portichetto che avevano costruito la prima croce, aveva dei tubi in acciaio inox in garage che avrebbe dovuto usare per dei balconi ma che per ragioni svariate gli erano rimasti lì. Sono iniziati i lavori e nell'agosto del 2001 la nuova croce era pronta. Pesava 60 quintali e fu portata in vetta da un elicottero. Alla sua posa avvenuta il 25 agosto assistettero 300 persone. Oltre alla targa della Gigia si decise di porvi anche quella in memoria di suor Laura Mainetti, uccisa qualche mese prima a Chiavenna, e che amava particolarmente la montagna. Con noi c'erano gli alpini, le nostre famiglie, tanti del posto e padre Giampiero Casiraghi che celebrò la Messa. Una emozione grandissima”.

Posta la nuova croce, quella vecchia finì nel garage di Gianni Comi: rappresentava un momento importante di vita, alla sua ombra si erano celebrate tante Messe, dietro i due bracci c'era la storia di un gruppo di “incoscienti” partiti per 3mila metri in pantaloni corti e sandali e arrivati a valle sani e salvi, non si sa come. Non poteva essere “smaltita” come un ferro qualunque. E così è rimasta lì per vent'anni. Poi per ragioni spesso inspiegabili, a sistemare le cose ci pensano il tempo e il destino.



La croce della GIGIA nel giardino parrocchiale

“Nei mesi scorsi ho parlato con il parroco don Luigi, gli ho raccontato della croce e della sua storia e mi ha detto: portala qui in parrocchia e la mettiamo nel giardino. Così ho fatto. Sono andato a recuperarla a Campodolcino, l'ho smontata dato che era avvitata con 4 bulloni e l'ho portata in parrocchia a Merate. Tempo qualche giorno ed è stata eretta nel giardino, con una targa che ne ricorda la storia e che a noi meratesi rimasti fa ancora commuovere”.
S.V.
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