LIBRI CHE RIMARRANNO/23: ''Il silenzio'' di Don DeLillo
L'anno scorso di questi tempi avreste riconosciuto il vero lettore in chi, esauriti i lapalissiani riferimenti alla peste boccacciana, o manzoniana - qualcuno invero fighetteggiava anche con Camus -, vi avrebbe citato l'«airbornetoxicevent» di "Rumore Bianco", di Don DeLillo, l'«evento tossico aereo» contro il quale Jack Gladney, docente in un bucolico college del Midwest, cerca di combattere, cercando un farmaco dalle facoltà straordinarie, e a cui in molti abbiamo pensato quando è scoppiata l'epidemia di Covid-19.
Don DeLillo ha la sconvolgente capacità profetica che solo i grandissimi hanno. Chi ha letto "Underworld", scritto prima dell'11 settembre, sa quello di cui sto parlando.
È uscito da qualche mese un suo libro stranissimo, cortissimo, cui si fa fatica ad assegnare l'etichetta di romanzo. Faccio personalmente fatica anche a definirlo un "racconto lungo". Mi pare piuttosto un lavoro preparatorio per altro, per una pièce teatrale, forse, o per un annichilente bilancio di fine vita e fine carriera, quasi.
Già in "Zero K" si intravedeva questo smarrimento di fronte al tempo che scorre inesorabile (Donald Richard DeLillo, figlio di immigrati molisani, è del '36) e l'utopia di una ibernazione criogenica per sfuggire non solo alla corruzione del corpo ma anche a quello generale della società e del mondo, e risvegliarsi in un futuro libero da malattie.
Là erano pur sempre le buone 250 pagine di Don DeLillo. Qui "Silenzio" scivola via in un mazzetto di fogli.
Jim Kripps e Tessa Berens sono su un volo da Parigi a Newark costretto a un atterraggio di fortuna per un blackout imprevisto.
Li attendevano i loro amici Max e Diane, per guardare insieme alla TV il Superbowl. Ma tutto è andato in tilt. Saltate le connessioni di rete, i telefoni, le televisioni, internet: silenzio. L'azzeramento del flusso delle informazioni genera un panico più profondo ed esistenziale, poiché nessuno sembra sapere più nulla, come se avessimo fatto outsourcing delle nostre stesse conoscenze, e non le possedessimo più se non in questa specie di rete.
Il presagio di questo disagio avviene già sull'aereo: Jim guarda in maniera ossessiva i dati sui piccoli monitor del sedile, altezza, pressione, previsioni del tempo all'arrivo, tempo stimato, velocità di crociera, ripetendoli a sé e a Tessa con l'insistenza di Dustin Hoffman in "Rain Man". Tessa non trova una definizione delle parole crociate, e quando la recupera e si incastra a perfezione, Jim dubita: hai controllato sul telefonino? le dice. Perché nulla è ormai vero se proviene dalla nostra sola conoscenza.
Se DeLillo non fosse l'immenso scrittore che è avrebbe ciurlato nel manico per trecento pagine, alla Ludlum, alla Clancy, e avrebbe sfornato un techno-thriller da rimanerci incollati per giorni.
Gli bastano invece 103 pagine, di piccolo formato. Nel silenzio che rimane una volta terminate c'è la domanda vera su quel che vorremo continuare a essere.
Don DeLillo ha la sconvolgente capacità profetica che solo i grandissimi hanno. Chi ha letto "Underworld", scritto prima dell'11 settembre, sa quello di cui sto parlando.
È uscito da qualche mese un suo libro stranissimo, cortissimo, cui si fa fatica ad assegnare l'etichetta di romanzo. Faccio personalmente fatica anche a definirlo un "racconto lungo". Mi pare piuttosto un lavoro preparatorio per altro, per una pièce teatrale, forse, o per un annichilente bilancio di fine vita e fine carriera, quasi.
Già in "Zero K" si intravedeva questo smarrimento di fronte al tempo che scorre inesorabile (Donald Richard DeLillo, figlio di immigrati molisani, è del '36) e l'utopia di una ibernazione criogenica per sfuggire non solo alla corruzione del corpo ma anche a quello generale della società e del mondo, e risvegliarsi in un futuro libero da malattie.
Là erano pur sempre le buone 250 pagine di Don DeLillo. Qui "Silenzio" scivola via in un mazzetto di fogli.
Jim Kripps e Tessa Berens sono su un volo da Parigi a Newark costretto a un atterraggio di fortuna per un blackout imprevisto.
Li attendevano i loro amici Max e Diane, per guardare insieme alla TV il Superbowl. Ma tutto è andato in tilt. Saltate le connessioni di rete, i telefoni, le televisioni, internet: silenzio. L'azzeramento del flusso delle informazioni genera un panico più profondo ed esistenziale, poiché nessuno sembra sapere più nulla, come se avessimo fatto outsourcing delle nostre stesse conoscenze, e non le possedessimo più se non in questa specie di rete.
Il presagio di questo disagio avviene già sull'aereo: Jim guarda in maniera ossessiva i dati sui piccoli monitor del sedile, altezza, pressione, previsioni del tempo all'arrivo, tempo stimato, velocità di crociera, ripetendoli a sé e a Tessa con l'insistenza di Dustin Hoffman in "Rain Man". Tessa non trova una definizione delle parole crociate, e quando la recupera e si incastra a perfezione, Jim dubita: hai controllato sul telefonino? le dice. Perché nulla è ormai vero se proviene dalla nostra sola conoscenza.
Se DeLillo non fosse l'immenso scrittore che è avrebbe ciurlato nel manico per trecento pagine, alla Ludlum, alla Clancy, e avrebbe sfornato un techno-thriller da rimanerci incollati per giorni.
Gli bastano invece 103 pagine, di piccolo formato. Nel silenzio che rimane una volta terminate c'è la domanda vera su quel che vorremo continuare a essere.
Stefano Motta