Crac Maggioni Viaggi: in Aula il titolare racconta la sua verità. ''Mai lasciato a piedi qualcuno''. Tre anni la pena a suo carico
Accomodandosi a microfono, al cospetto del Tribunale - presidente Enrico Manzi, a latere le colleghe Giulia Barazzetta e Martina Beggio - Maggioni, nel rispondere alle domande poste dal procuratore facente funzione Alessandro Pepè e dal suo difensore - l'avvocato Claudio Rea - ha avuto modo, per la prima volta, non avendo risposto alla chiamata del curatore fallimentare, di raccontare la propria verità in riferimento ad entrambe le articolazioni dell'accusa mossa a suo carico, contestualizzando gli avvenimenti. A partire dalla cornice: Maggioni Viaggi - ha così avuto modo di spiegare - nasce nel 1998, quale costola autonoma e "evoluzione" della società di autotrasporto del padre, arrivando a fatturare anche un milione di euro l'anno, fino alla crisi del 2008. Lo scoppio della bolla, accompagnato dall'avvento di internet anche quale strumento per le prenotazioni fai da te e dai primi mancati pagamenti da parte di clienti già finiti in ginocchio avrebbero - nella plausibile ricostruzione dello stesso Maggioni - fatto insorgere i primi rossi bancari, portandolo poi a "buttare" nella società anche ingenti capitali personali. "Il nome della famiglia per noi era la prima cosa: nessuno ha mai avanzato nulla dai Maggioni" ha sostenuto, facendo riferimento alla decisione presa tra le mura di casa di immettere nell'agenzia tutte le risorse disponibili, per non lasciar a terra nessun cliente. Liquidate così le abitazioni personali sua e della madre ma anche 800.000 euro frutto della vendita dell'impresa del padre nel frattempo deceduto, un orologio ricevuto in eredità dal genitore, l'oro della figlia, 20.000 euro provento dell'attività della moglie... "Ci ho messo dentro tutto. Alla fine cosa dovevo fare?" ha domandato. La risposta gli è arrivata indirettamente dal PM, andato a indagare con le sue domande il perché non abbia chiesto il fallimento in proprio e il perché della mancata presentazione al curatore, dalla cui analisi è poi originato il fascicolo trasmesso in Procura. "La Maggioni Viaggi era diventato un cancro da cui scappare" la tesi dell'imprenditore, sostenendo di non aver voluto più saperne e facendo riferimento ai problemi psicofisici patiti - con tanto di paresi temporanea, poi superata - a causa dello stress accumulato e degli attacchi subiti, tramite la stampa e gruppi social creati appositamente.
Venendo ai nodi del processo: le scritture contabili, a suo dire, sarebbero state correttamente tenute dal suo commercialista fino al 2013, anno in cui, non venendo pagato, il professionista lo avrebbe "abbandonato", suggerendogli di rivolgersi altrove, invito di fatto non accolto, non avendo le possibilità di farlo. Eppure nel capo d'imputazione si fa riferimento anche a annualità precedenti al 2014. A tal proposito Maggioni ha asserito di aver trovato altra documentazione, oltre a quella parzialmente girata al curatore. Chiesto a tal proposito dall'avvocato Rea un ulteriore termine per integrare la prova a discarico, non concesso dal collegio né prima di dichiarare chiusa l'istruttoria né dopo la discussione delle parti, con la richiesta reiterata dal difensore.
Quanto ai 46.000 euro drenati dalle casse della Maggioni Viaggi per esigenze etichettate come "personali" dal curatore, l'imputato ha spiegato di essersi visto costretto, una volta bloccati i conti dell'agenzia, ad usare carte di credito proprie o intestate alla moglie o ancora al negozio di quest'ultima, per prenotare i biglietti aerei dei suoi clienti, essendo il pagamento elettronico l'unico allora consentito, rigirandosi poi le somme di fatto "anticipate". Un ragionamento che non ha però coperto, per esempio, un bonifico con beneficiaria l'immobiliare del villino dove viveva a Imbersago. Anche in questo caso, le parole di Maggioni non hanno trovato riscontro in documentazione da esibire al collegio.
Ritenendo già scaduti i termini per la produzione di prove, i giudici dopo una veloce camera di consiglio hanno emesso la sentenza. Con il riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti sulla contestata aggravante, l'imputato è stato condannato a 3 anni, oltre al pagamento delle spese processuali.