LIBRI CHE RIMARRANNO/19: ''Candor lucis aeternae" di Papa Francesco
"Mi congratulo, pertanto, con gli insegnanti che sono capaci di comunicare con passione il messaggio di Dante, di introdurre al tesoro culturale, religioso e morale contenuto nelle sue opere. E tuttavia questo patrimonio chiede di essere reso accessibile al di là delle aule scolastiche e universitarie. Esorto le comunità cristiane, soprattutto quelle presenti nelle città che conservano le memorie dantesche, le istituzioni accademiche, le associazioni e i movimenti culturali, a promuovere iniziative volte alla conoscenza e alla diffusione del messaggio dantesco nella sua pienezza."
Scrive così papa Francesco nella Lettera apostolica "Candor lucis aeternae" (Àncora libri, Euro 1,50), e non è la prima volta che il papa venuto dai confini del mondo, per certi versi più italiano di tanti papi italiani, omaggia in modo così sincero e diretto uno degli scrittori che ci rendono fieri di essere italiani.
L'aveva già fatto col "mio" Manzoni rivolgendosi ai fidanzati durante l'udienza generale in piazza San Pietro il 27 maggio del 2015 e parlando dei "Promessi sposi": "Voi italiani nella letteratura avete un capolavoro sul fidanzamento ed è necessario che i ragazzi lo conoscano e lo leggano". E io avevo colto la palla al balzo e ci avevo scritto un bel libretto che viene usato in molte parrocchie per i corsi di preparazione al matrimonio.
Questa volta Francesco mi ha fregato e ha scritto lui, una lettera apostolica dotta ma affabile, che vale davvero la pena leggere.
Passa in rassegna in modo corsivo la biografia dantesca, e i pronunciamenti dei pontefici suoi predecessori su Dante, pellegrino e ghibellino, fumantino e perseguitato, "nostro", come scriveva nel 1921 papa Benedetto XV all'arcivescovo di Ravenna.
E sì che Dante aveva avuto la mano pesante con più di un pontefice, da Niccolò III a Bonifacio VIII, a quel Clemente V che compirà ancor "più laida opra" dei suoi predecessori, simoniaci e corrotti, immersi a testa in giù in un pozzo e tormentati da fiammelle sulle piante dei piedi. È un duplice contrappasso, il rinnegamento del battesimo e il rifiuto dello Spirito Santo, che stava sopra le teste degli Apostoli e che invece questi pontefici hanno calpestato con il loro agire immondo poiché mondano.
Ah, quanto ci vorrebbe un Dante anche ai giorni nostri, e come brucerebbero varie parti del corpo a preti che impazzano con condotte non dissimili!
C'è un Francesco, però, e non ha timore di confrontarsi con Dante. Ce ne offre sin dal titolo della sua lettera un taglio ermeneutico particolare, che parte dal mistero dell'Incarnazione, di quel Verbo che si fece carne e che il calendario festeggia proprio il 25 marzo, quando il mondo della cultura ha istituito il "Dantedì".
Se nonostante la sua superbia Dante ha ottenuto dalla bontà divina, che "ha sì gran braccia", di andare in Paradiso, mi immagino che l'evangelista Luca lo guardi un po' di sottecchi: è dal suo testo che sono state prese le espressioni-guida dell'Ave Maria, ma si deve a Dante la preghiera più bella alla Vergine, infinitamente più bella dell'Ave Maria, ispirata non solo dal talento poetico: siamo al canto XXXIII del Paradiso, e l'attacco è un trionfo di ossimori e poesia: "Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d'etterno consiglio...".
Papa Francesco sa che il Verbo continua a incarnarsi e la voce dei poeti rappresenta una scheggia di una rivelazione ancora da chiarirsi. Si parla spesso di "ispirazione" poetica, tanto quanto si parla di "ispirazione" per gli evangelisti, ma cosa può aggiungere un poeta alla Rivelazione? Qual è il contributo che può offrire con la sua arte? Se fosse solo di natura estetica sarebbe davvero poca cosa, ma c'è un talento e una vocazione in chi ha il dono della parola, un'urgenza in coloro nei quali il Verbo si è incarnato, e il dovere di mettere in comune questo dono. Per questo, condannati ad assaporare le pieghe più nascoste dell'animo umano, allenati a scrivere sul crinale sottile delle parole, a scontare la polisemia delle loro mille sfumature di suono, a scrivere quel che urge dentro, i poeti possono farci da guida, e prestarci le loro parole quando le nostre ci sembreranno troppo poche o troppo povere per chiedere, ringraziare, piangere, pregare.
Scrive così papa Francesco nella Lettera apostolica "Candor lucis aeternae" (Àncora libri, Euro 1,50), e non è la prima volta che il papa venuto dai confini del mondo, per certi versi più italiano di tanti papi italiani, omaggia in modo così sincero e diretto uno degli scrittori che ci rendono fieri di essere italiani.
L'aveva già fatto col "mio" Manzoni rivolgendosi ai fidanzati durante l'udienza generale in piazza San Pietro il 27 maggio del 2015 e parlando dei "Promessi sposi": "Voi italiani nella letteratura avete un capolavoro sul fidanzamento ed è necessario che i ragazzi lo conoscano e lo leggano". E io avevo colto la palla al balzo e ci avevo scritto un bel libretto che viene usato in molte parrocchie per i corsi di preparazione al matrimonio.
Questa volta Francesco mi ha fregato e ha scritto lui, una lettera apostolica dotta ma affabile, che vale davvero la pena leggere.
Passa in rassegna in modo corsivo la biografia dantesca, e i pronunciamenti dei pontefici suoi predecessori su Dante, pellegrino e ghibellino, fumantino e perseguitato, "nostro", come scriveva nel 1921 papa Benedetto XV all'arcivescovo di Ravenna.
E sì che Dante aveva avuto la mano pesante con più di un pontefice, da Niccolò III a Bonifacio VIII, a quel Clemente V che compirà ancor "più laida opra" dei suoi predecessori, simoniaci e corrotti, immersi a testa in giù in un pozzo e tormentati da fiammelle sulle piante dei piedi. È un duplice contrappasso, il rinnegamento del battesimo e il rifiuto dello Spirito Santo, che stava sopra le teste degli Apostoli e che invece questi pontefici hanno calpestato con il loro agire immondo poiché mondano.
Ah, quanto ci vorrebbe un Dante anche ai giorni nostri, e come brucerebbero varie parti del corpo a preti che impazzano con condotte non dissimili!
C'è un Francesco, però, e non ha timore di confrontarsi con Dante. Ce ne offre sin dal titolo della sua lettera un taglio ermeneutico particolare, che parte dal mistero dell'Incarnazione, di quel Verbo che si fece carne e che il calendario festeggia proprio il 25 marzo, quando il mondo della cultura ha istituito il "Dantedì".
Se nonostante la sua superbia Dante ha ottenuto dalla bontà divina, che "ha sì gran braccia", di andare in Paradiso, mi immagino che l'evangelista Luca lo guardi un po' di sottecchi: è dal suo testo che sono state prese le espressioni-guida dell'Ave Maria, ma si deve a Dante la preghiera più bella alla Vergine, infinitamente più bella dell'Ave Maria, ispirata non solo dal talento poetico: siamo al canto XXXIII del Paradiso, e l'attacco è un trionfo di ossimori e poesia: "Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d'etterno consiglio...".
Papa Francesco sa che il Verbo continua a incarnarsi e la voce dei poeti rappresenta una scheggia di una rivelazione ancora da chiarirsi. Si parla spesso di "ispirazione" poetica, tanto quanto si parla di "ispirazione" per gli evangelisti, ma cosa può aggiungere un poeta alla Rivelazione? Qual è il contributo che può offrire con la sua arte? Se fosse solo di natura estetica sarebbe davvero poca cosa, ma c'è un talento e una vocazione in chi ha il dono della parola, un'urgenza in coloro nei quali il Verbo si è incarnato, e il dovere di mettere in comune questo dono. Per questo, condannati ad assaporare le pieghe più nascoste dell'animo umano, allenati a scrivere sul crinale sottile delle parole, a scontare la polisemia delle loro mille sfumature di suono, a scrivere quel che urge dentro, i poeti possono farci da guida, e prestarci le loro parole quando le nostre ci sembreranno troppo poche o troppo povere per chiedere, ringraziare, piangere, pregare.
Rubrica a cura di Stefano Motta