LIBRI CHE RIMARRANNO/18: ''Inferno'' di Dan Brown
Qualche settimana fa parlavo al telefono della nostra rubrica dantesca con una giornalista già corrispondente da San Francisco e poi per China Daily di Pechino (ché Dante, o Merateonline, o tutti e due insieme, e anche un po’ Motta, why not?, “tirano” ben più lontano di quanto non si creda), e tra una chiacchiera su Jack Kerouac e un’altra su Jeffery Deaver si è finiti a parlare degli spin off danteschi, Dan Brown compreso.
Volavamo alto nei nostri centoni di critica letteraria, tra la Pivano, e la Merini, e Amos Oz, e Steiner, e il nome di Dan Brown è deflagrato come un’anticlimax. E a metterlo in mezzo ero stato io.
Con un’excusatio non petita ho subito messo le mani avanti: “io ho un lato nazionalpopolare, di quelli che amano il Festival di Sanremo, per esempio, e non disdegno incursioni nella cosiddetta paraletteratura”. Ed eccomi perciò a pagare il fio.
Titolo, profilo aquilino del Sommo in copertina, ambientazione fiorentina – almeno per parte del romanzo – autorizzano a inserire “Inferno”, di Dan Brown, nella schidionata di titoli che ruotano attorno al mondo di Dante in questo settecentenario dalla morte.
Poi sono autorizzate anche le alzate di sopracciglio: tante sono le incongruenze storiche e i voli pindarici che Dan Brown compie nei suoi romanzi, che pure non hanno loro impedito di diventare dei best sellers a livello internazionale e dei blockbusters al cinema.
Anche “Inferno” ha avuto la sua brava trasposizione cinematografica, e forse mai come per questo romanzo, più ancora che per “Il Codice da Vinci” e “Angeli e demoni”, vale l’adagio “meglio il libro del film”.
Perché i libri di Dan Brown permettono in effetti una gara, ingaggiano il lettore in una sorta di caccia al tesoro nella quale, carta geografica e guide Touring alla mano, si cerchi di arrivare noi prima di Langdon a decifrare gli enigmi proposti di volta in volta dalla tal setta, o dal tal visionario. In questo la ricetta dei libri di Dan Brown è molto semplice, stereotipata, prevedibile e per ciò stesso efficace. C’è forse troppa carne al fuoco in questo “Inferno”, tra Dante e Botticelli e Vasari, ma del resto quando uno è a Firenze non può non essere preso dalla vertigine di voler tenere tutto insieme.
Ne parlavo oggi in libreria, facendo compere mentre mio figlio era sotto i ferri del dentista a mettere l’apparecchio: da quando c’è stato il covid i libri che raccontano storie di virus vendono come non mai.
Anche “Inferno” racconta di un virus: il film è, nel suo happy end che ribalta lo scritto, più consolante. Il romanzo è rassegnato e disarmante. Ci rendiamo conto adesso, in questo matto biennio, che ancora una volta aveva più ragione il libro del film, purtroppo.
Volavamo alto nei nostri centoni di critica letteraria, tra la Pivano, e la Merini, e Amos Oz, e Steiner, e il nome di Dan Brown è deflagrato come un’anticlimax. E a metterlo in mezzo ero stato io.
Con un’excusatio non petita ho subito messo le mani avanti: “io ho un lato nazionalpopolare, di quelli che amano il Festival di Sanremo, per esempio, e non disdegno incursioni nella cosiddetta paraletteratura”. Ed eccomi perciò a pagare il fio.
Titolo, profilo aquilino del Sommo in copertina, ambientazione fiorentina – almeno per parte del romanzo – autorizzano a inserire “Inferno”, di Dan Brown, nella schidionata di titoli che ruotano attorno al mondo di Dante in questo settecentenario dalla morte.
Poi sono autorizzate anche le alzate di sopracciglio: tante sono le incongruenze storiche e i voli pindarici che Dan Brown compie nei suoi romanzi, che pure non hanno loro impedito di diventare dei best sellers a livello internazionale e dei blockbusters al cinema.
Anche “Inferno” ha avuto la sua brava trasposizione cinematografica, e forse mai come per questo romanzo, più ancora che per “Il Codice da Vinci” e “Angeli e demoni”, vale l’adagio “meglio il libro del film”.
Perché i libri di Dan Brown permettono in effetti una gara, ingaggiano il lettore in una sorta di caccia al tesoro nella quale, carta geografica e guide Touring alla mano, si cerchi di arrivare noi prima di Langdon a decifrare gli enigmi proposti di volta in volta dalla tal setta, o dal tal visionario. In questo la ricetta dei libri di Dan Brown è molto semplice, stereotipata, prevedibile e per ciò stesso efficace. C’è forse troppa carne al fuoco in questo “Inferno”, tra Dante e Botticelli e Vasari, ma del resto quando uno è a Firenze non può non essere preso dalla vertigine di voler tenere tutto insieme.
Ne parlavo oggi in libreria, facendo compere mentre mio figlio era sotto i ferri del dentista a mettere l’apparecchio: da quando c’è stato il covid i libri che raccontano storie di virus vendono come non mai.
Anche “Inferno” racconta di un virus: il film è, nel suo happy end che ribalta lo scritto, più consolante. Il romanzo è rassegnato e disarmante. Ci rendiamo conto adesso, in questo matto biennio, che ancora una volta aveva più ragione il libro del film, purtroppo.
Stefano Motta