LIBRI CHE RIMARRANNO/14: ''Il manoscritto di Dante'' di Claudio Coletta

Del "Canzoniere" di Petrarca abbiamo la fortuna di avere il codice membranaceo originale, in parte autografo, cioè di mano dello stesso Petrarca, in parte idiografo, vale a dire copiato dal discepolo Giovanni Malpaghini sotto la supervisione diretta dello stesso poeta: è il manoscritto Vaticano latino 3195. La fortuna è doppia quando si scopre che sullo scaffaletto della Biblioteca Apostolica Vaticana questo libro è affiancato dal fratellino minore, il Vaticano latino 3196, un codice di 20 carte detto "codice degli abbozzi": sono le "brutte copie" di Petrarca, potremmo dire.

Di Boccaccio abbiamo tracce autografe curiosissime, tra l'altro, per esempio, sui libri dello stesso Petrarca: l'amico glieli prestava e lui li glossava con le maniculae, ci faceva i disegnini, alcuni bellissimi come quello dell'airone sulla sorgente della Sorgue a Vaucluse.
Della prima delle tre corone fiorentine non abbiamo nulla, nessuna traccia manoscritta incontrovertibilmente attribuibile a Dante, nemmeno una mezza parola, come se non avesse scritto nulla di suo pugno, non solo relativamente alle proprie opere ma anche delle carte diplomatiche in latino che redasse nella sua lunga attività politica.
Si dice che se qualcosa è rimasto, questo qualcosa possa essere ritrovato nelle carte degli Ordelaffi di Forlì, conservate e forse finora non così completamente compulsate alla Biblioteca Vaticana.
Occorre scatenare gli studiosi dal fiuto più sopraffino. Oppure chiedere conto all'ispettore Nario Domenicucci. Genovese tranquillo, funzionario dell'Europol, chiamato in causa dal collega Pujol quando in un lussuoso appartamento del Marais viene rinvenuto il cadavere di Clothile Dumoulin, milionaria donna d'affari, che ha allestito nel caveau della sua dimora un piccolo museo di bellezze. Non tutte lecitamente possedute, ovviamente. Risultati spariti un Picasso, un Constable, un Giorgione.
Marais vuol dire Parigi, e Parigi vuol dire Maigret: ne "Il manoscritto di Dante", di Claudio Coletta (Sellerio 2016) il giallo si mischia alla filologia. Non posso dire che il risultato mi abbia convinto: "e allora perché lo consigli?", mi chiederete.
Perché costringe a fare altre ricerche, ad appassionarsi al giallo per eccellenza della filologia italiana, di cui sopra ho accennato per sommissimi capi: fosse servito anche solo a ciò, questo romanzo un po' pretenzioso nell'argomento e faticoso nella prosa, avrebbe già raggiunto un obbiettivo che tanta narrativa nemmeno sogna di lontano.
Stefano Motta
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