LIBRI CHE RIMARRANNO/5: ''Sabotaggio'' di Arturo Pérez-Reverte
Scriveva Umberto Eco in una sua "Bustina di Minerva" del 1998 che il criterio per riconoscere un film pornografico non è il tempo in cui sullo schermo vengono trasmesse scene di improbabili copule ma quello trascorso in automobile, il tempo morto che fungerebbe da collante tra le scene di cui sopra e che non possono, per verosimiglianza e persino per resistenza fisica, riempire l'intero film: "Se per andare da A a B i protagonisti ci mettono più di quanto desiderereste, questo significa che il film è pornografico."
A scanso di equivoci, nonostante mi piaccia molto viaggiare in auto, io non mi intendo di pornografia. Mi rendo conto però che lo stesso criterio è presto applicabile a molti generi di narrativa e cinematografia attuali: secondo i dettami dell'incipit "in medias res", nessun libro che si rispetti inizierà mai oggi con una carrellata panoramica come "Quel ramo del lago di Como eccetera eccetera", ma inizia con uno stridìo di pneumatici, una scalata (con cambio manuale, perdio!), due colpi di pistola sparati al cielo lassù e chi arriva primo a quel muro, e poi cinque minuti buoni di inseguimento.
Se va bene, la prima battuta pronunciata da un attore è un'imprecazione. Per avere un dialogo tocca attendere ancora. E anche il dialogo è striminzito, telegrafico. Così si fanno i thriller come dio comanda.
E invece, in queste vacanze, ho letto un libro d'azione, un thriller di spionaggio, scritto come si deve. E l'effetto è stato di creare ancora maggiore suspense. Perché non c'è scazzottata o inseguimento che possa generare più tensione di una mezza parola lasciata in sospeso in un dialogo ben scritto.
È scritto benissimo "Sabotaggio" (Rizzoli, 2020, pagg. 400), l'ultimo romanzo di Arturo Pérez-Reverte, e tradotto con maestria da Bruno Arpaia, cui va parte del merito dell'effetto fascinoso di cui sopra. Per ragioni biografiche i libri di letteratura spagnola e ispano-americana in casa mia vanno sempre in coppia, uno in italiano e l'altro in lingua originale. Così è per García-Márquez, per Vargas Llosa, per l'amatissimo Ruiz Zafón, tradotti tutti da Arpaia, non so se mi spiego.
I più conoscono Pérez-Reverte per "Il club Dumas", da cui Polanski trasse il film "La nona porta", con Johnny Depp ed Emmanuelle Seigner, o per la saga del Capitano Alatriste, portato sullo schermo da Viggo Mortensen, ma è Lorenzo Falcó, che qui compare per la terza volta nei romanzi di Pérez-Reverte, il suo personaggio più bello.
Ex trafficante d'armi, donnaiolo, spia franchista, Falcó sta alla Guerra Civile Spagnola come James Bond sta alla Guerra Fredda. Lo stesso cavalleresco disprezzo per il pericolo, lo stesso apparente sessismo misogino, lo stesso irrisolvibile dubbio esistenziale, vissuti però, per stessa ammissione di Pérez-Reverte, da un punto di vista politicamente non corretto. "L'ho creato franchista - dice lo scrittore - "perché stanco di eroi dalla parte dei repubblicani. Visto poi che nei romanzi attuali in Spagna i protagonisti, oltre che repubblicani, sono femministi".
Falcó si muove nella Parigi degli anni Trenta con cinico dandysmo, alle calcagna di un intellettuale comunista da screditare ma soprattutto con l'incarico di sabotare un dipinto che un famoso pittore spagnolo espatriato in Francia stava realizzando per l'Esposizione Universale del 1937. Incrociano i suoi passi lo scrittore e politico André Malraux, Lee Miller e Man Ray, Hemingway, occultati nei personaggi fittizi del romanzo, e i camei della Dietrich e soprattutto di quel pittore spagnolo ritratto nella sdegnosa sufficienza "di uno abituato a essere, da quasi tre decenni, oggetto della venerazione altrui".
Il romanzo spazia da Biarritz a San Sebastían, a Montparnasse, e cammina sulla Rive Gauche, sponda di intellettuali e di spie, e ha nei dialoghi, persino quelli dei momenti più grevi, di sesso spinto, le sue parti migliori.
Ed è in una di queste coreografiche copule a tre che si insinua dispettoso un quarto incomodo, quell'olio su tela dalle grandi dimensioni, oggi conservato al Reina Sofía dopo essere stato per molti anni al MOMA di New York, da leggersi da destra a sinistra perché così era stato pensato, visto l'ingresso del padiglione spagnolo dell'EXPO di Parigi.
Una madre con un neonato, un cavallo che sembra un asino, un toro, un po' corrida un po' presepe, la colomba che cade a terra: ci vuole un po' perché lo stesso Falcó comprenda cosa abbia a che fare quel dipinto con la Guerra Civile spagnola, così come l'opinione pubblica credette per lungo tempo che la distruzione di quella cittadina basca fosse stata opera di dinamitardi minatori comunisti e non della Luftwaffe.
Mi piacciono i libri che non finiscono con l'ultima pagina, che ti suggeriscono di approfondire, che ti chiedono di aprirne altri, di rispolverare vecchie conoscenze di arte, di storia, di politica. O di creartene di nuove.
Mi piacciono i libri scritti bene.
"Sabotaggio" è sia l'uno che l'altro.
A scanso di equivoci, nonostante mi piaccia molto viaggiare in auto, io non mi intendo di pornografia. Mi rendo conto però che lo stesso criterio è presto applicabile a molti generi di narrativa e cinematografia attuali: secondo i dettami dell'incipit "in medias res", nessun libro che si rispetti inizierà mai oggi con una carrellata panoramica come "Quel ramo del lago di Como eccetera eccetera", ma inizia con uno stridìo di pneumatici, una scalata (con cambio manuale, perdio!), due colpi di pistola sparati al cielo lassù e chi arriva primo a quel muro, e poi cinque minuti buoni di inseguimento.
Se va bene, la prima battuta pronunciata da un attore è un'imprecazione. Per avere un dialogo tocca attendere ancora. E anche il dialogo è striminzito, telegrafico. Così si fanno i thriller come dio comanda.
E invece, in queste vacanze, ho letto un libro d'azione, un thriller di spionaggio, scritto come si deve. E l'effetto è stato di creare ancora maggiore suspense. Perché non c'è scazzottata o inseguimento che possa generare più tensione di una mezza parola lasciata in sospeso in un dialogo ben scritto.
È scritto benissimo "Sabotaggio" (Rizzoli, 2020, pagg. 400), l'ultimo romanzo di Arturo Pérez-Reverte, e tradotto con maestria da Bruno Arpaia, cui va parte del merito dell'effetto fascinoso di cui sopra. Per ragioni biografiche i libri di letteratura spagnola e ispano-americana in casa mia vanno sempre in coppia, uno in italiano e l'altro in lingua originale. Così è per García-Márquez, per Vargas Llosa, per l'amatissimo Ruiz Zafón, tradotti tutti da Arpaia, non so se mi spiego.
I più conoscono Pérez-Reverte per "Il club Dumas", da cui Polanski trasse il film "La nona porta", con Johnny Depp ed Emmanuelle Seigner, o per la saga del Capitano Alatriste, portato sullo schermo da Viggo Mortensen, ma è Lorenzo Falcó, che qui compare per la terza volta nei romanzi di Pérez-Reverte, il suo personaggio più bello.
Ex trafficante d'armi, donnaiolo, spia franchista, Falcó sta alla Guerra Civile Spagnola come James Bond sta alla Guerra Fredda. Lo stesso cavalleresco disprezzo per il pericolo, lo stesso apparente sessismo misogino, lo stesso irrisolvibile dubbio esistenziale, vissuti però, per stessa ammissione di Pérez-Reverte, da un punto di vista politicamente non corretto. "L'ho creato franchista - dice lo scrittore - "perché stanco di eroi dalla parte dei repubblicani. Visto poi che nei romanzi attuali in Spagna i protagonisti, oltre che repubblicani, sono femministi".
Falcó si muove nella Parigi degli anni Trenta con cinico dandysmo, alle calcagna di un intellettuale comunista da screditare ma soprattutto con l'incarico di sabotare un dipinto che un famoso pittore spagnolo espatriato in Francia stava realizzando per l'Esposizione Universale del 1937. Incrociano i suoi passi lo scrittore e politico André Malraux, Lee Miller e Man Ray, Hemingway, occultati nei personaggi fittizi del romanzo, e i camei della Dietrich e soprattutto di quel pittore spagnolo ritratto nella sdegnosa sufficienza "di uno abituato a essere, da quasi tre decenni, oggetto della venerazione altrui".
Il romanzo spazia da Biarritz a San Sebastían, a Montparnasse, e cammina sulla Rive Gauche, sponda di intellettuali e di spie, e ha nei dialoghi, persino quelli dei momenti più grevi, di sesso spinto, le sue parti migliori.
Ed è in una di queste coreografiche copule a tre che si insinua dispettoso un quarto incomodo, quell'olio su tela dalle grandi dimensioni, oggi conservato al Reina Sofía dopo essere stato per molti anni al MOMA di New York, da leggersi da destra a sinistra perché così era stato pensato, visto l'ingresso del padiglione spagnolo dell'EXPO di Parigi.
Una madre con un neonato, un cavallo che sembra un asino, un toro, un po' corrida un po' presepe, la colomba che cade a terra: ci vuole un po' perché lo stesso Falcó comprenda cosa abbia a che fare quel dipinto con la Guerra Civile spagnola, così come l'opinione pubblica credette per lungo tempo che la distruzione di quella cittadina basca fosse stata opera di dinamitardi minatori comunisti e non della Luftwaffe.
Mi piacciono i libri che non finiscono con l'ultima pagina, che ti suggeriscono di approfondire, che ti chiedono di aprirne altri, di rispolverare vecchie conoscenze di arte, di storia, di politica. O di creartene di nuove.
Mi piacciono i libri scritti bene.
"Sabotaggio" è sia l'uno che l'altro.
Stefano Motta