LIBRI CHE RIMARRANNO/2: ''L'inverno più nero'' di Carlo Lucarelli

È nei primi giorni di dicembre, che si dipanano le trame dell'ultimo romanzo di Carlo Lucarelli, "L'inverno più nero".
E non parla dell'inverno 2020, per quanto nero noi lo si possa considerare, nella retorica bellica che ha accompagnato la lotta al Coronavirus. L'armamentario di archetipi ha attinto però alla Prima, di guerra, l'essere "in trincea", lo "stare coperti", le frontiere, i confini, i fili spinati dei DPCM, lo spirito di sacrificio di chi combatte "in prima linea", cui si aggiunge la medesima pletorica inadeguatezza di alcuni generali. E non sto parlando solo di quelli che causarono Caporetto.
Era il nero il colore di quell'inverno del '44, quasi alla fine della Seconda, di guerra. Non il bianco della neve e nemmeno il rosso che domina i portici della dotta Bologna. Nell'inverno del 1944 il centro della città viene dichiarato "Sperrzone", zona da non bombardare, e la cerchia interna delle mura si riempie di cinquecentomila persone, e centoventimila capi di bestiame, una specie di enorme campo profughi dove gli sfollati dalle campagne si portano con sé anche gli animali, e i portici diventano aie, i palchi dei teatri improvvisati monolocali, e le cavee cortili.

È il nero il colore. Delle camicie nere repubblichine, e dei soprabiti lunghi di pelle della Gestapo, in quell'inverno che rallenta la risalita alleata dal Sud e consegna per un'altra stagione l'Italia del Nord all'occupazione tedesca, alle velleità della RSI di Salò, e alla rabbia delle brigate partigiane. È in questo mondo grigio, dove i buoni e i cattivi si distinguono a fatica, nel buio dell'oscuramento notturno, che si muove uno dei commissari più complessi della nostra letteratura.
I romanzi e la televisione si alimentano spesso di figure di eroici e irrisolti tutori della legge, di Montalbani e Cecchini, di Schiavoni e Coliandri. E anche il nostro De Luca, inquadrato nella Polizia politica di Salò, ha avuto il suo perché sullo schermo, e il perché si chiama Alessandro Preziosi.
Ma rispetto agli altri suoi colleghi De Luca ha più domande, non solo sui delitti, ma su sé stesso.
Vive periodi bui, nei quali vorrebbe solamente fare il poliziotto, senza le aderenze politiche che inevitabilmente caratterizzarono l'Italia di quegli anni. E noi lo accompagniamo a piedi, o sulla bicicletta da bersagliere, con le ruote piene e i freni a bacchetta, per le strade di Bologna, una città che è già da sola un romanzo, e le sentiamo anche noi le sue domande: chi sei? Perché sei così? Perché sei sempre ricattabile per qualcosa che hai fatto prima? E soprattutto: cosa hai fatto?
Mi accorgo che sto girando intorno e non ho detto niente del romanzo che vorrei recensire.
In parte perché non dovrebbe esserci bisogno di raccontare di cosa parla un libro di Carlo Lucarelli: Lucarelli si legge a prescindere. E non c'entra il fatto che tra noi due ci sia una qualche familiarità: Carlo Lucarelli è davvero uno degli scrittori più bravi dell'ultimo scorcio di letteratura italiana, della fucina bolognese di Loriano Macchiavelli, di Francesco Guccini, di Eraldo Baldini.
In parte perché anche io mi diletterei di essere un giallista, e nemmeno sotto tortura rivelerei la trama di un libro giallo, mio o di altri.
In parte perché, nelle storie dei tre delitti (tre!) su cui De Luca si trova a indagare, per conto di tre committenti diversi e persino tra loro contrapposti, la polizia politica di Salò, le brigate clandestine partigiane e la Gestapo, la vera storia è la storia sua, di lui, storia nella Storia.
O forse no. Che la Storia ha sempre la esse maiuscola anche quando è la storia di uno, da solo, per i fatti suoi.
Stefano Motta
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