Retesalute: al rilancio aziendale non c’è alternativa che sia ragionevole

Può darsi che gli amministratori dei comuni soci di Retesalute siano ancora confusi e increduli di fronte alla voragine riscontrata nei conti dell’azienda speciale pubblica. E che per questo lunedì non abbiano assunto alcuna decisione ufficiale se non un via libera all’atto di indirizzo che di fatto non vincola alcun comune e lascia aperte le due strade percorribili: ricapitalizzazione o liquidazione coatta amministrativa. Ma se così è lo shock è imputabile solo alla dimensione del “buco” non certo alla sua esistenza. Chi ha seguito le assemblee dei soci sa che ogni tentativo del precedente CdA di rilanciare l’azienda attraverso robuste iniezioni di denaro - finalizzato a rafforzare i quadri e i dirigenti, senza i quali non è possibile gestire società che fattura svariati milioni di euro – allargando la base societaria ai comuni dell’oggionese e del caratese ha trovato continui ostacoli causati da ben individuati comuni a guida PD o dintorni. La prova? Basta leggere la pagina 9, l’ultima, del piano di rilancio aziendale che si dilunga sul bilancio 2018, laddove con una semplice tabella mostra quali sono le necessità ineludibili tradotte in 739mila euro di maggiori costi da coprire con un versamento una tantum dei soci di 5,96 euro per abitante, operando poi solo con la leva della vendita del servizio a un euro in più del suo costo complessivo di produzione. Si legge testualmente: “Nella grave situazione attuale purtroppo ci si vede costretti a utilizzare ancora per un’ultima volta questo mezzo”.  E ancora: “Già si è detto che a regime non sono previsti costi fissi per abitante da corrispondere per il funzionamento aziendale”.

Lunedì con un polso più fermo il Presidente dell’assemblea avrebbe potuto rompere gli indugi e mettere ai voti la proposta di ricapitalizzare Retesalute, se questa come pare è la sua volontà, non perdendosi dietro il fumoso documento di indirizzo che tra gli altri porta la firma del sempre più democristiano Filippo Galbiati. Il debito c’è e va pagato, anche se si sceglie la strada della liquidazione coatta amministrativa. Con l’aggravante di una situazione anche occupazionale esplosiva e una sconfitta sul piano politico catastrofica.

Giusta la proposta del revisore Stefano Maffi di affidare una due diligence a PWC o Deloitte per ricostruire la verità dei bilanci dal 2015 a oggi ma deve essere un’attività parallela all’immediato conferimento al CdA dell’ordine di andare avanti. Maffi ha utilizzato i mastrini del bilancio di apertura 2018 sulla base di quelli di chiusura del 2017. Errati i secondi anche i primi risultano poco attendibili. Avere contezza piena è un diritto di tutti i soci. Ma procedere comunque nel rilancio dell’azienda è un dovere verso tutti i cittadini deboli.

Alessandra Colombo ha detto chiaramente: noi ci siamo e siamo disponibili a andare avanti con l’obiettivo di chiudere in pareggio il 2020. Tenendo conto che né lei né gli altri tre membri superstiti del Consiglio prendono un solo euro – altra follia dello statuto da eliminare prontamente, chi lavora deve essere retribuito – chiudere tutto sarebbe un vero delitto.

Le responsabilità, anche se di ammanchi o sottrazioni indebite siamo certi non ce ne sono state, andranno individuate e sanzionate secondo legge. Ma Retesalute deve andare avanti. E deve crescere, come ogni azienda che si rispetti.

Prendere tempo come si è fatto lunedì e disquisire per un’ora sulla compartecipazione al ripiano dei comuni oggionesi che giustamente si rifiutano di farsi carico di perdite antecedenti il loro ingresso in azienda, non serve.

A meno che quella di temporeggiare – come abbiamo visto purtroppo in passato – non sia una tattica per portare l’azienda all’asfissia per mancanza di ossigeno. Stia bene attento Massimo Panzeri.

Se Retesalute prosegue metterà a segno un punto, se si ferma definitivamente sarà una grossa macchia sulla sua consigliatura.
Claudio Brambilla
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