Mandic: i pensieri e le riflessioni in libertà dal personale della Pneumologia. Caro covid rassegnati, noi non indietreggiamo

Paura e angoscia, ansia e smarrimento ma anche piccole gioie e bagliori di speranza. Sono i sentimenti che da mesi riempiono i cuori di medici, infermieri, oss e personale sanitario in genere che dall'interno degli ospedali stanno combattendo con i malati la battaglia al coronavirus.

Vite sconvolte, legami famigliari annullati, certezze che vacillano di fronte alla morte che arriva inaspettata e si fa strada un letto dopo l'altro. Il Covid è stato e continua a essere tutto questo, con uomini e donne, giovani e di esperienza, che non si fermano di fronte allo scoramento e alla paura ma stringono i denti e danno filo da torcere al mostro invisibile. E lo possono fare perchè oltre alla loro grande professionalità si sono ritrovati più che mai colleghi, parte di una stessa squadra quella della PneumoTeam. E poi perchè negli occhi dei pazienti, immobili sotto il casco dell'ossigeno, vedono lo sguardo terrorizzato e sofferente dei loro nonni e genitori, nelle mani deboli che cercano di afferrarsi alla vita riconoscono il desiderio del calore umano. E questo per loro è l'incoraggiamento più grande a non mollare.

Abbiamo raccolto una carrellata di pensieri, sfoghi e riflessioni di coloro che in questi mesi hanno fatto della pneumologia la loro seconda casa, forse anche la prima dato il numero di ore che vi trascorrono. Non serve commentare, è sufficiente leggere per assaporarne la bellezza e respirarne la genuinità e il sudore che ne trasuda. Alleghiamo a corredo una serie di immagini scattate in questi mesi e che ritraggono momenti di distensione, di lavoro in équipe e anche di gioia per le dimissioni di qualche paziente.




"Coronavirus" un termine così "buffo" che ha creato panico più totale. Un panico si può dire mondiale.

Un panico che ha preso il sopravvento nella nostra vita, nel quotidiano, ma soprattutto nel lavoro. Quando è stato comunicato che il nostro reparto sarebbe diventato area covid devo ammettere che ho avuto tanta paura, paura più che altro legata alla "mostruosità" con la quale questo virus si stava espandendo, paura di non saper gestire la cosa, paura di non essere pronta, paura di avere a che a fare con qualcosa del tutto sconosciuta. Arrivavano i primi pazienti in reparto, in massa, tutte persone colpite da questo virus ed è iniziato il caos. All'inizio la paura si era trasformata in ansia, l' ansia nella vestizione, nell'indossare tutti i presidi nella maniera giusta, di avere la massima attenzione in ogni cosa che si faceva, eppure nonostante tutto ce l'abbiamo fatta. Abbiamo visto pazienti arrivare e purtroppo anche pazienti andar via; ogni giorno era un giorno di speranza per tutte quelle persone che erano lì nei letti increduli di tutto, più di tutti noi. Persone che si son ritrovate in quei letti lontano dalle famiglie, lontano dai propri cari, loro avevano solo Noi, noi che li assistevano a 360°, loro vedevano in noi l'unica loro speranza, i loro eroi. Questa realtà è stata straziante, ma allo stesso tempo mi dava la forza, la forza di fare di tutto ,di lavorare senza sosta, la forza per poter affrontare ogni giorno situazioni del tutto nuove. Le ore di lavoro spesso diventano infinite, turni che ti distruggevano non solo fisicamente, ma soprattutto psicologicamente. Spesso pensavo a tutte quelle persone che almeno avevano la famiglia vicino, avevano la mamma e il papà che li abbracciava dopo una dura giornata di famiglia, io purtroppo non ho avuto questa "fortuna", ma la mia fortuna è stata il meraviglioso team che si è creato a lavoro, siamo stati tutti uniti sin dal primo giorno, ci siamo aiutati gli uni con gli altri sin dall'inizio e di questo ne sono fiera e contenta.Beh...non voglio dire altro, ma sono sicura che ne usciremo più forti di prima, perché Andrà tutto bene.E continuerò a dirlo.



Primo giorno

Non è più il reparto che ho sempre conosciuto. C'è un'ansia e una pesantezza nuova. C'è anche paura. Non è la "solita polmonite". Ho tante domande in testa, non ho risposta. Mi sento anche un po' disorientata. Non che non sappia assistere, ma perché le "linee guida" sono vaghe, non c'è un sentiero sicuro da percorrere. Intanto che Tutto questo frulla nella mia testa, arrivano i pazienti : sono spaventati, vorrebbero sentirsi dire "ora la curiamo noi, non si preoccupi", vorrebbero risposte. Ma non ne abbiamo, non abbiamo una strategia chiara. L'intubazione, il temuto "tubo in gola", è un jolly che va giocato con parsimonia. Nemmeno quello è sicuro ti possa salvare.

Il delirio

I turni diventano molto pesanti. C'è rumore, delirio, pazienti che arrivano al limite della sopportazione del casco, che non ce la fanno più. Devi correre, fare le cose bene e in fretta. Non riesci a dedicare a ognuno il tempo che vorresti: raccogli i dati essenziali dell'anamnesi, sai che è covid positivo (o presto arriverà la conferma) e guardi l'età: ci sono gli over 75 e i 45/50enni. Spesso e volentieri arrivano dalla provincia di Bergamo. Cerchi anche di imprimerti nella mente i loro nomi per non etichettare tutti come "paziente-covid-positivo" e basta. Devi spiegare che dovranno mettere il casco: l'unica terapia "d'urto" che, per il momento, abbiamo. Poi comincio a pregare: spero di vedere qualche miglioramento, anche minuscolo. Qualcosa dovrà funzionare contro questo dannato virus...Si Comincerà anche la terapia con immunosoppressori, antivirali, enoxaparina, azitromicina... Tanti cominciano anche a morire. Non si può più far nulla. Peggiorano e basta. E sei impotente. Smonto dal turno, rientri il giorno dopo: "il paziente è peggiorato, forse sta morendo". Nei turni corri, corri, corri. C'è rumore, sofferenza, confusione. Quando finisci il turno vorrei scappare via e rinchiudermi in una bolla, isolarmi. Mi rifiuto di ascoltare i telegiornali: non ho voglia di sentir parlare di numeri, di morti, di casi che aumentano. Voglio un piccolo angolino dove poter stare tranquilla. Almeno per qualche ora. Una delle frasi più brutte: il malato xxx è morto. Dovrebbe essere portato in camera mortuaria. Ma non ci sono posti, è pieno. Dobbiamo aspettare" NON CI SONO POSTI Nonostante tutto il delirio, con i colleghi (che sono ormai una seconda famiglia) cominci a trovare la forza di sorridere, scherzare, a pensare positivo: non durerà per sempre (i Cinesi e I Sud coreani hanno ottenuto risvolti notevoli, perché noi no?) Comincia a farsi strada la speranza (TIMIDISSIMA, ma c'è). Inizia a delinearsi un "iter terapeutico".I turni sono sempre super frenetici, ma cominci a sentire che stai lottando, ti attivi in modo positivo. Sei protagonista di una pandemia che sei chiamato a combattere in prima linea. Dobbiamo farcela. POSSIAMO FARCELA. La gente comincia a chiamarci "eroi". A volte fa piacere. A volte, sinceramente, essere nella spotlight mi mette in imbarazzo: io sono un'infermiera. Sono sempre stata in prima linea e sono fiera di questo: è il lavoro che ho scelto, il mio dovere. Non ho super poteri(anche se, in questi casi, farebbe comodo).



NE USCIREMO?

È una domanda che amiche e conoscenti mi chiedono spesso. Quando tutto è scoppiato, l'ho chiesto a mio papà (medico). Lui mi ha risposto "Certo. I tuoi nonni hanno vissuto e combattuto due guerre, vissuto la carestia. Tuo nonno è stato tenuto prigioniero. loro hanno avuto coraggio di ricominciare e perseverare, anche noi possiamo farcela" E' difficile, ma non impossibile. Faccio parte di un'equipe fenomenale, siamo una forza della natura. Noi lottiamo e non ci fermiamo. Barcolliamo, ma non molliamo. La quarantena è una prova grossa per tutti. Pesa. Ma non possiamo arrenderci. Ho fiducia in chi sta studiando per un vaccino, in chi trova un momento di bellezza e/o di gratitudine. Troviamo anche la forza di scherzare in reparto. Ormai siamo "ingranati" in questa nuova pandemia: continuiamo a fare il massimo e andremo avanti a testa alta. La speranza cresce e noi diventiamo ogni giorno (nonostante gli scleri e i momenti di sconfitta) sempre più uniti e forti "Caro" covid, noi non indietreggiamo neanche di un passo.

All'inizio c'era adrenalina nel preparare il reparto per accogliere al meglio i pazienti e per preparare tutti i dispositivi giusti che ci sarebbero serviti. Poi con l'arrivo dei pazienti e con loro il virus, è subentrata la paura di sbagliare, di non essere all'altezza e anche di ammalarmi! Poi sono passati i giorni e le settimane e sono arrivate le stanchezza e l'amarezza nel vedere troppe persone morire in solitudine e a volte mi sono sentita impotente.

Però non mi sono persa d'animo, ho resistito, sono arrivati nuovi colleghi e poi i primi segnali di miglioramento e l'adrenalina è tornata più forte di prima e mi accompagna ogni giorno al lavoro!

Il mio pensiero personale racchiude tante forti emozione che ho provato sia in ambito professionale che personale. Professionalmente mi sento cresciuta, mi sono sentita un vero operatore socio sanitario che opera nelle sue competenze, come nel prendermi cura del paziente critico, nell'averlo supportato e sostituito in azioni semplici come il solo lavargli le mani. Cooperare con l'infermiere quando si entra nelle stanze per provare i paramenti vitali o mettere un casco ed essere pronta a controllare con lui che funzionasse in modo corretto e collaborare con tutto il resto dello staff come una grande famiglia. Sinceramente non mi immaginavo che tutti fossimo così uniti per uno stesso obbiettivo. Anche se spesso ho fatto turni davvero stancanti e arrivavo sudata sotto quei camici e sotto quelle mascherine, sono sempre stata attenta e soddisfatta, fiera del lavoro che stavo compiendo, sopratutto quando il paziente ringraziava anche solo per avergli dato il buongiorno la mattina o per avergli sistemato le lenzuola. Personalmente la situazione che mi ha più colpito e che più non mi ha fatto dormire la notte é stata vedere e vivere la morte di questi uomini e donne, purtroppo soli, abbandonati a questo virus, senza poter salutare i proprio famigliari. Mi ricordo che in un turno mi è stato chiesto di finire il turno tenendo la mano ad uno di loro, quella mano la stringevo come se fossi davvero una persona a lui cara, una nipote che stava accanto a suo nonno. Nello stesso tempo però ricordo anche quel mattino che ho gestito quell'urgenza in stanza 4, ero sola, avevo solo indicazioni, quelle indicazioni che ho seguito alla lettera, quel giorno in un primo momento mi sono spaventata ma poi ho subito capito che dovevo reagire e andai correndo a prendere il flussimetro. Mi toccò profondamente lo sguardo di quel signore che aveva capito di essere nelle mie mani, mani che stringeva forte. Conclusi quel turno in un pianto e ancora ricordo le parole, parole che ancora oggi mi danno la forza e mi fanno sentire ancora di più "xxx l'oss della pneumologia".



Febbraio 2020.

Turno di mattina. Procede tutto regolare fino a che squilla il telefono di reparto. Sospetto Coronavirus?Come? Cosa? È arrivato anche in Italia? In Lombardia? A Merate?! Ok. Attrezziamoci come meglio possiamo, camicino verde di protezione dai casi di pazienti infetti, guanti q.b., mascherina FFP2 raccattata in qualche armadio polveroso di reparto. Niente panico, arriva la signora.. “buongiorno! Benvenuta, come sta? Scusi per l’outifit eh, non si spaventi! È di prevenzione..” Prevenzione da cosa? Ma poi per quanto tempo? Ma si sarà un falso allarme, come al solito.. questo virus sta mettendo panico inutile.E invece no.

Marzo 2020, esattamente una settimana dopo dall’ingresso della signora sopracitata.

“Entro domani dobbiamo liberare il reparto: si manda al domicilio chi può permetterselo mentre gli altri devono essere inviati in altri reparti o in riabilitazione. Da domani saremo reparto Covid.” Assurdo ma tutto vero.. arrivano i primi pazienti positivi al maledetto Coronavirus-19, chissà come si sentono, chissà se realizzano. Anche perché sono anziani, e dentro il casco CPAP è facile rimbambirsi.. Continuano i turni infiniti, seguiti da 2 ore di lavoro straordinario, straordinario nel vero senso della parola: ore intere sotto quei tutoni da astronauti che fanno mancare l’aria, le forze. Ore intere senza provvedere ai propri bisogni primari, ma cosa importa? Già è difficile provvedere ai bisogni dei nostri assistiti, quindi la priorità sono sicuramente loro! Crescono le preoccupazioni, aumentano le distanze, aumenta il numero di persone che purtroppo non ce la fa e passa a miglior vita. Ma lo scenario lentamente cambia, un po’ in meglio poiché arrivano rinforzi e i farmaci antiretrovirali -oltre a distruggere il fegato - iniziano a dare i primi frutti, un po’ in peggio perché gli anni di nascita dei nostri assistiti sono numeri sempre più grandi e i posti di terapia intensiva scarseggiano. Così l’UTIR si trasforma in un reparto intensivo mentre la pneumologia diventa una semintensiva, così ci si rimbocca le maniche per dare ognuno il meglio di sè, così emerge un vero e proprio spirito di equipe in cui si collabora andando oltre alla gerarchia classica dei ruoli. “xxx ha bisogno solo di pochi litri di ossigeno, verrà trasferito così possiamo prendere un signore che ha bisogno di essere ventilato”. Ma dopo i trasferimenti arrivano le prime dimissioni e con loro i primi bagliori di speranza e i preziosi messaggi di ringraziamento per l’assistenza ricevuta in un momento così delicato. Non è ancora finita ma possiamo permetterci di tirare un fiato di sollievo: finalmente i nostri pazienti hanno appetito, fanno palestra nei 20 mq della loro camera e sorridono! Non dimenticherò mai gli sguardi dei malati in cerca di aiuto, di spiegazioni, di un po’ di sollievo dalla mancanza di fiato o dal dolore di una strage familiare, ma anche gli sguardi persi dei nostri dottori quando si trattava di dover scegliere chi intubare (ebbene sì, non era solo una notizia ingigantita dai TG) o di un infermiere che dopo 2 ore di terapia era già ora di ricominciare.. È in un momento così surreale, costretti lontano dagli affetti di amici e familiari, che ho trovato una famiglia nella PNEUMOteam!”.



Le sensazioni ed emozioni che si provano quando si sente parlare di COVID-19, o come meglio conosciuto coronavirus, sono tante. Non è facile spiegare a parole ne tantomeno scrivere quello che ho provato in questo periodo. La prima su tutte è la paura, sì proprio quella, quando il virus è arrivato in Italia si percepiva qualcosa di diverso nell'aria e dopo appena quindici giorni anche noi siamo diventati reparto COVID. La prima volta che mi sono rapportato con questa tipologia di pazienti ho percepito la paura di morire nei loro occhi. Si trattava di pazienti giovani e meno giovani ma la paura di non essere all'altezza era tanta ed inoltre ho sempre lavorato sperando di non contrarre anch'io questo virus non per me, ma per la mia ragazza e i miei amici con i quali abito. Di giorno in giorno la situazione clinica dei pazienti diventava sempre più critica e per cui la ventilazione non invasiva non era più sufficiente, l'unico modo per tamponare il virus era l'intubazione. Si inizia ad intubare un paziente dopo l'altro e così diventammo terapia intensiva; ho assistito anche se intubare un paziente o un altro solamente perché era qualche anno più giovane. Mi sentivo sconfitto, anche perché di pazienti deceduti ne ho visti tanti. A volte mentre tornavo a casa ho pianto per questo motivo. Parlavo tanto a casa e a lavoro con amici e colleghi su come stavo e in ognuno di loro trovavo sempre parole di conforto e forza, ma fortunatamente la paura non è stata solo l'unica emozione: quando i primi pazienti rispondevano alla terapia ho visto uno spiraglio di felicità. Il lavoro che stavamo facendo non era invano. Inizialmente non vedevamo pazienti guariti da questa malattia perché appena miglioravano venivano trasferiti in altri reparti per accogliere quelli più critici. Man mano passavano i giorni anche noi abbiamo provato quella sensazione di dimettere un paziente guarito dal COVID-19: è stata definita una vittoria. Avevamo sconfitto il virus tutti insieme anche se un pensiero era ed è rivolto a tutte quelle persone decedute. Siamo stati definiti eroi ed angeli ma in realtà siamo solamente delle persone, infermieri che fanno il loro lavoro come sempre abbiamo fatto ieri, oggi e soprattutto domani.



Se penso a circa un mese fa, quando siamo diventati reparto Covid, fatico a ricordare emozioni distinte, l'inizio è stato il caos più totale, un bombardamento di tante sensazioni tutte insieme.

A primo impatto c'è stata sicuramente la paura. Non ero pronta a un evento del genere, come tutti, credo, non sapevo cosa mi sarei dovuta aspettare concretamente, ne come lo avrei affrontato dal punto di vista emotivo. Ricordo, soprattutto le prime settimane, la tensione durante la vestizione e svestizione, e l'attenzione nel posizionare tutti i dispositivi di protezione nel modo più corretto e, spesso, più rapido possibile, per poter intervenire sulle urgenze, tutelando in primis me stessa. Da subito c'è stata la preoccupazione di poter prendere il virus e di poterlo trasmettere alla mia famiglia, quindi, sin dal primo giorno, ho deciso di considerarmi "potenzialmente infetta" e di autoisolarmi nella mia camera, riducendo al minimo ogni contatto con i miei familiari. Se da un lato questo provvedimento mi ha dato una sicurezza in più, dall'altro, inevitabilmente, mi causa dispiacere. Non è facile, soprattutto in un momento come questo, uscire dal reparto con la consapevolezza di tornare a casa e dover stare da sola con i propri pensieri.È un'esperienza con un fortissimo impatto a livello psicologico, in cui è tanto importante, quanto difficile, riuscire a mantenere un distacco emotivo da quello che si vive in reparto. A casa spesso mi è capitato e mi capita di pensare con sconforto ad alcune scene viste in reparto, penso alla solitudine in cui queste persone si trovano a combattere il virus, a quante volte è capitato che un paziente poco responsivo ai trattamenti dica che, basta, non c'è più speranza per lui, penso alla preoccupazione dei parenti che chiamano in continuazione confidando in buone notizie, che molte volte non possono essere date.
Di fronte ad alcune situazioni mi sono sentita impotente, e di fronte ad altre ho capito quanto valore possano avere una semplice stretta di mano e delle parole di conforto. Uscendo dal reparto più volte ho provato tanta rabbia per l'enorme differenza che notavo tra la vita dentro gli ospedali e quella esterna, tanta gente "al di fuori" tuttora sottovaluta il problema, si ostina a definire il Covid "una semplice influenza", e nonostante le indicazioni imposte dalla legge trova pretesti per uscire di casa per attività non essenziali, in un certo senso vanificando i nostri sforzi. In tutto ciò, però, c'è un grandissimo pensiero positivo, che mi spinge ad andare al lavoro carica e con il sorriso ogni giorno, che proviene dai miei colleghi, e dai chi ci dona supporto dall'esterno offrendoci un pasto o del materiale per proteggerci e per continuare a lavorare in sicurezza. Questa esperienza ha messo in evidenza il concetto di "equipe" in ogni sua sfaccettatura. Il rapporto tra di noi è stato da subito un crescendo: c'è sinergia, intesa, fiducia, supporto, e determinazione ad andare avanti e ad affrontare le difficoltà insieme.



Sono un'infermiera della Pneumologia-UTIR. Nel mio reparto, da un giorno all'altro, ci siamo trovati a dover allestire un reparto per COVID, non sapendo neanche cosa stavamo per affrontare. Nessuno poteva saperlo, solo immaginarlo leggendo le esperienze dei colleghi di Codogno che sembravano così lontane da noi, nonostante gli fossimo vicini con il pensiero. Ogni giorno ci si chiedeva "e se capitasse a noi?" quel momento era arrivato. In meno di 24h abbiamo allestito ogni postazione.
Sono saltate ferie, congedi, riposi, permessi.
Io sono entrata in turno il giorno dell'apertura, i colleghi del turno di notte avevano ultimato i preparativi e quelli del pomeriggio prima avevano dimesso in fretta e furia tutti i pazienti.
Ci sono 2 parole che mi vengono in mente: caos e paura.
La paura, per me, non tanto sul rischio di contagio quanto sul rischiare di "portare a casa" questo virus e poterlo attaccare ai miei cari, ai soggetti più fragili.
Caos perché è stato affrontare l'ignoto. DPI che tardavano ad arrivare, tamponi da fare (mai fatti in vita mia), stravolgimento totale dei ritmi dell'assistenza infermieristica, stravolgimento del rapporto infermiere - paziente. Vedere questi malati soli, perché nel momento in cui viene conclamata la positività al COVID-19 le famiglie non possono venire a trovarli, perché a loro volta sono in quarantena, se tutto va bene nelle loro case o peggio a loro volta ricoverati.
E questa credo sia la cosa più terribile che porta questo virus, oltre al dolore fisico e alla mancanza di respiro Importante, c'è la solitudine assoluta.
Non poter entrare in stanza ogni volta che si vuole, ogni volta di cui richiedono la nostra presenza, anche solo per un conforto. Dobbiamo pensare a come e quando entrare, per ottimizzare l'uso dei DPI (che scarseggiano in ogni realtà) e anche per limitare la nostra esposizione.
Entriamo nelle stanze dei pazienti, impauriti e preoccupati, con dei lunghi camici blu, mascherine che fanno male al volto e che  lasciano segni per molto tempo, doppi guanti, calzari e visiera. Dispositivi di protezione, che ci coprono viso e corpo e che non lasciano trapelare alcuna emozione.
Da quel giorno non possiamo più entrare nelle stanze dei nostri assistiti allegri, spensierati cercando di regalare momenti di sconforto, ma entriamo come astronauti, spaventati quasi a nostra volta. Quello che facciamo ogni tanto è regalare una carezza, una stretta di mano... Dire loro che siamo lì, che non li lasciamo soli. Non possiamo promettere sempre che andrà tutto bene, perché non possiamo promettere cose che non possiamo sapere.
Abbiamo visto pazienti stare relativamente bene, peggiorare drasticamente nel giro di poche ore fino a dover essere intubati.
Abbiamo anche provato a gestire pazienti intubati e sedati, nonostante non avessimo le competenze, lo abbiamo fatto senza esitare pur di dargli una chance mentre si "creava" un posto per loro in RIA.
Ma in tutto questo grande caos una cosa mi ha fatta riflettere ed emozionare, l'unione e la forza dell'équipe. Dell'intera équipe, caposala, primario infermieri, oss, medici, fisioterapisti. Siamo diventati tutti una cosa sola, l'uno che aiuta l'altro senza porsi domande o problemi, lo si fa e basta. Fiducia, si è creata una fiducia pazzesca tra tutti noi. Forza, ci diamo tanta forza a vicenda, senza bisogno di grandi parole o gesti, ma la si percepisce sempre più grande. Ho sentito il gruppo unirsi e farsi corazza per poter affrontare tutto questo INSIEME. E visto che è bello trovare sempre il lato positivo in quello che accade, penso che questo sia degno di nota. Il rispetto reciproco e la fiducia nel lavoro di equipe. Uno non va avanti senza l'altro, ma insieme siamo diventati una forza incredibile. Penso che senza questa unione nessuno di noi, da solo, avrebbe potuto affrontare tutto questo fisicamente e soprattutto psicologicamente. L'altra forza grande ci è stata data dall'esterno:alpini, protezione civile, volontari, cittadini, ristoranti che mandandoci del materiale per poter continuare ad assistere i malati e DPI, dei pasti, dei biglietti o degli striscioni appesi fuori dall'ospedale ci hanno fatto sentire un calore indescrivibile. Noi non siamo eroi, gli eroi di questa guerra sono quelli dentro i letti del reparto, quelli che davvero stanno combattendo una battaglia. Noi siamo dei professionisti, che da sempre abbiamo come fine ultimo il bene del nostro assistito, nel bene e nel male noi siamo li. Dalla famosa semplice"influenza" ci siamo trovati in una situazione indescrivibile,momenti che non dimenticherò mai più ansie,tristezze,paure. Ricordo reparto in subbuglio, pazienti impauriti e noi più di loro, ricordo la loro sofferenza dai loro occhi e la paura,paura di una morte in totale solitudine (la cosa che mi ha angosciata di più). Piano piano la situazione è andata migliorando il virus iniziava a farci meno paura. Dare sostegno,coraggio e un semplice sorriso e stato per me una gioia indescrivibile così come festeggiare compleanni in reparto,guarigioni e come una semplice barba a un paziente e soprattutto strappare un sorriso per farli sentire meno soli....questo e stata una vera SODDISFAZIONE perché questo è il mio/ nostro LAVORO..



Le mie impressioni sul Covid19

Marzo/Aprile 2020, Mi rimarrà impresso a vita! Un periodo storico, nel quale questo virus in modo prepotente ha preso sopravvento con la sua ferocia inaspettata! Mi ci è voluto del tempo prima di capire realmente cosa stava succedendo. La tensione era alta e le modalità lavorative cambiate di punto in bianco. Le attenzioni aumentavano, per sopperire alla confusione creata dai continui ricoveri. Uno scenario triste, che presentava pazienti in grave insufficienza respiratoria. Una situazione, che associata alla solitudine dei malati lontani da casa, mi provava intensamente. Ho cercato di immedesimarmi nella loro situazione, provando a comunicare loro un minimo conforto, pur non avendo un legame affettivo. La fatica in questi momenti non si fa sentire, c’è molto da fare e l’adrenalina aiuta a equilibrare le forze. I turni lavorativi iniziano e finiscono in un batter d‘occhio e le timbrature oltrepassano spesso l’orario ordinario. Nelle prime settimane molte persone ci hanno lasciato, soprattutto i più anziani, nello specifico quelli con più problematiche patologiche. Di conseguenza, il nostro tono d'umore ha subito dei cali non indifferenti, ma il dovere di proseguire con gli altri pazienti, ci dava forza. Ora che i casi sono diminuiti e molti malati sono dimessi, si inizia a vedere un po’ di luce grazie anche ai loro sorrisi riconoscenti. Come o.s.s. credo di aver dato del mio meglio, per questo motivo spero di essere stata un valido aiuto per il resto del personale.
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