In memoria dei 31 bambini del Vajont

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Capita persino ai grandi di sbagliare. È capitato l’11 ottobre di sessant’anni fa a Dino Buzzati, che intitolava così il suo pezzo sul “Corriere”: “Natura crudele”.

Mentre ci consegnava la più drammatica e nuda descrizione della sciagura del Vajont (“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”), non riusciva nemmeno a lui a vedere quali fossero state le cause vere di quel disastro. Nemmeno la sua immaginazione così fervida poteva presumere quell’intreccio di disonestà interessate, di sciagurate facilonerie e di dissennate decisioni che causarono il dramma. Infatti continua: “Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere è fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento e del coraggio umano. La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico […]. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed asciutta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche, stia nascosta una lama segreta e invisibile che in un momento dato scatterà.”

E se Buzzati ha ragione nella chiusa finale, ha avuto purtroppo torto: gli anni ci hanno insegnato che bisogna eccome dare della bestia a chi ha progettato e costruito quella diga in quella valle alle pendici di quel monte che i friulani chiamavano “Toc” (marcio) non per diletto. E dare della bestia non basta a chi dopo difese i colpevoli, anche se si chiamava Leone, e fu presidente del Consiglio e della Repubblica.
Riguardando i giornali di quel 1963 ci si imbatte spesso nei fraintendimenti in cui è caduto Buzzati: “Ha ceduto la diga sul lago Vajont”, titola infatti l’Unità il 10 ottobre, che all’interno prosegue: “Nella notte è crollata la più alta diga d’Europa”; “Crolla la diga del Vajont” titola anche “Il Resto del Carlino” lo stesso giorno; “Disastro a Belluno per il crollo di una diga”, scrive “Il Messaggero”; anche “Il Secolo XIX” parla di “crollo della diga”.
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Poi viene l’11 ottobre e le voci dei soccorritori e degli inviati riferiscono che la diga è ancora in piedi. Ecco il pezzo di Buzzati sul “Corriere”. Ed ecco, finalmente, il titolo dell’”Unità”: “Una strage che si poteva evitare”, l’articolo di fondo: “Tragedia con un nome” e, a pag. 2, la firma di Tina Merlin. È a questa giornalista coraggiosa, che fu processata insieme al suo giornale per aver denunciato negli anni precedenti il pericolo costituito da questa diga, che si deve la testimonianza più nuda e veritiera della catena di misfatti che generò questa sciagura. Il libro che li testimonia, “Sulla pelle viva”, andrebbe letto nelle scuole accanto alla manzoniana “Storia della colonna infame”.
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“Sto scrivendo ora queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa”, scrive Tina Merlin a chiusura del suo pezzo amaro.
Per quanto possa sembrare assurdo, la diga del Vajont è uno dei miei luoghi del cuore. Ci vado spesso e quando posso ci porto in visita i miei studenti. Talvolta capita che la vista del canyon, lugubre, non li commuova. Che la diga appaia persino uno spettacolo di ingegneria (Buzzati ha ragione: è bellissima, slanciata, orgogliosa, paradossale nel suo stare in quel drammatico equilibrio di forze), che la frana ormai in via di rimboschimento non spaventi, che le parole di commemorazione appaiono persino retoriche, che i numeri (1910 vittime di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e un paio di altre centinaia sparse) sembrino dati da wikipedia.
Poi entri al piccolo cimitero monumentale di Longarone, e vedi la distesa di lapidi bianche, come un sacrario di guerra, e ti chiedi per quale guerra siano caduti quegli innocenti. Per il progresso? Per dare energia elettrica al boom economico della ruggente Italia degli anni Sessanta? Davvero ne valeva la pena?
Poi ti avvicini alla teca con gli orologi a taschino, tutti fermi alle 22.39, e capisci che un progresso che ferma il tempo vitale non è vero progresso.
Ma è il monumento in marmo bianco di Carrara, posto nel 2005, che ti toglie il fiato: unite in una colonna di carne, braccia, fango, giovani donne stringono le mani sul ventre gravido di vita, mentre altre madri spingono in alto, con le braccia, i loro piccoli, offrendoli alla luce a cui non hanno potuto darli.
Trentuno sono i bambini mai nati sepolti in una bara di fango prima ancora di essere deposti in una culla.
Lì i miei studenti capiscono.
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Chissà se anche tutte le autorità che oggi si alterneranno per la celebrazione del sessantesimo anniversario di quel delitto di stato faranno altrettanto. Come scriveva Tina Merlin, oggi non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa.
Stefano Motta
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